Ma chi l’avrebbe mai detto che per la nuova generazione l’America avrebbe ancora rappresentato un sogno da concretizzare, una terra promessa da raggiungere per veder finalmente realizzato il desiderio di movimento ed azione? Certo è che se ad essere rappresentata è la fredda ed immobile realtà di un luogo a metà tra provincia e periferia staccato, dissociato dal resto del mondo dove tre diverse generazioni si dibattono tra un passato difficile da abbandonare ed un presente che proprio non ne vuol sapere di cedere il passo ad un probabile futuro, si comprende questo rinvigorito desiderio di stelle e strisce. L’America di Fausto Paravidino si annida tra una anonima campagna che nulla ha da spartire con la vagheggiata frontiera con il Messico, nei poco entusiasti motteggi tra amici e soprattutto in quel continuo richiamo al più romantico ed indomito eroe del Texas, l’uomo che affronta il suo destino sotto l’ombra del proprio cappello, che non fugge e che rende plausibile un’ intera vita cancellando apatia ed immobilità dalla sua esistenza. Un parallelismo, questo, che ha arricchito soprattutto dal punto di vista estetico la prima regia di Paravidino, ma che non è stato così impositivo da coprire o quantomeno rendere più accettabili alcuni elementi che si rintracciano con fin troppa facilità in prodotti di stampo chiaramente generazionale.

Eccoci nuovamente a confronto con un gruppo di amici alle prese con le proprie problematiche esistenzialiste, egoistiche o puramente amorose che in qualche modo strizzano l’occhio ai più adulti ma sicuramente meno angosciati ed abbattuti trentenni de L’ultimo bacio, ecco far capolino tra risate forzate ed una amicizia che rasenta assuefazione e dipendenza, una precoce valutazione della propria esistenza in stile Da zero a dieci. Se a tutto questo si aggiunge la visione di una provincia divisa ancora tra fascisti e comunisti dove l’onore familiare si difende all’uscita del bar del paese in un confronto degno di due cowboy dall’accento emiliano e dall’umore esaltato e sfalsato da un bicchiere di troppo, verrebbe spontanea la sensazione di trovarsi dentro “certe notti” tanto cantate da Ligabue. Mentre per finire l’utilizzo della voce fuori campo del narratore impegnato nella presentazione di se stesso e dei suoi compagni chiude il cerchio di una serie di ispirazioni che portano ad una cifra stilistica ben precisa ma che non regala di certo a Paravidino il vantaggio dell’indipendenza e della personalizzazione. Un coraggio forse eccessivo da chiedere per un’ opera prima ma che avrebbe sicuramente arricchito stile e narrazione, lasciando al primo la possibilità di esprimersi pienamente ed alla seconda la possibilità di evitare la trappola di rassicuranti cliches.

di Tiziana Morganti