Trovarsi sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Però se alla fine per premio c’è un viaggio di sola andata per un fazzoletto verde nel mare greco, qualcuno potrebbe pensarci. Ma il protagonista di Taxi Lovers di Luigi Di Fiore cosa lo aspetta lo scopre solo strada facendo e, nonostante ciò, sta al gioco. Nel nero girotondo in cui lo trascina una ex prostituta che tenta di cambiare vita, si trova coinvolto in un omicidio che non ha commesso, sulla scia di un tesoro (un codice) che fa gola a molti, coinvolge il depresso giovane, un tassista di passaggio che da lei resta folgorato, rischia, e più volte, la vita e, infine, vince la partita alla grande, mentre a restare esterrefatto è solo il povero spettatore. Lui è Edoardo Leo che il cinema (e il teatro) lo ha frequentato ma che dalla tv ha avuto quasi tutto; lei è la Elisabetta Cavallotti che, dopo l’esperienza di Guardami, sembra sguazzare in questi ruoli di (presunta) bella facile e dannata. Lei è una quasi veterana che ha sempre amato zigzagare tra cinema sperimentale e cinema di genere e che ammette: «Questo è stato davvero il set più sperimentale che mi sia mai capitato, perché si è trattato di un continuo mettersi in gioco, di un rischiare giorno per giorno e, poi, ormai con Edoardo è la terza volta che ci troviamo insieme e mi sembra di formare una coppia perfetta». Lui è un giovane (ma solo anagraficamente) di belle intenzioni che vuole gridare il suo orgoglio, qui e ora: «In fondo ciascuno di noi lavora, tra fiction e altro se la cava, potevamo restare a casa nostra. E invece abbiamo voluto farlo, questo film anomalo, farlo a tutti i costi, perché il cinema italiano ne ha bisogno, si vedono sempre gli stessi film e le stesse facce».

«Noi volevamo invece lanciare un sasso, lanciare un grido perché c’è in Italia una dittatura distributiva che fa morire il nostro cinema, mentre almeno negli anni Settanta per quei film di genere, magari imperfetti, c’era comunque qualcuno che rischiava i soldi di tasca propria». E per capire quello che vuole dire dobbiamo cominciare da una squadra di calcio di beneficenza. Un pugno di amici che hanno messo insieme 486mila euro e un film che è nato autotassandosi di 5mila euro ciascuno (suddividendo il film in quote), autoproducendosi («perché entrare nel giro delle grosse produzioni oggi è troppo arduo»), autodistribuendosi, piano piano, oggi una città, domani un’altra, con tanto di accompagnamento fisico di tutta la troupe e un fiume di pubblicità e di promozione. Dall’esterno, nel senso che nel film compare solo fuggevolmente, accanto a una piccola frotta di attori, da Alberto Di Stasio a Sergio Fiorentini, da Valentina Chico a Paolo Gasparini, appoggia e benedice Ettore Bassi, uno dei veri giovane principi della fiction: «Ciò che conta è l’operazione, non solo il film, il tentativo, la battaglia, il significato dell’operazione ed io ho voluto esserci anche solo per dare un piccolo contributo, anche solo per romanticismo». E, allora, non è che un debutto. O così giurano Massimiliano Caroletti e Alberto Rossi, produttori della neonata Quadrifoglio: tra non molto questa, che è ormai una cooperativa, sparerà un’altra cartuccia, stavolta in veste di commedia e, beninteso, ancora con attori e tecnici che si autotassano. Con Sergio Martino che dirige e Tony Renis che canta.

di Silvia Di Paola