Prendete una distesa d’acqua infinita con una coppia di sub “dimenticati” in pieno oceano, aggiungete la presenza inquietante di minacciosi quanto affamati squali ed ecco che il terrore è servito. Il regista Chris Kentis, assistito dalla moglie Laura Lau (produttrice del film), realizza Open Water (presentato al Sundance Film Festival) dimostrando come la paura possa essere ancora più intensa e claustrofobica se priva di una concretezza corporea e visiva. Girato per lo più tra week-end e periodi di vacanza con macchine digitali, la troupe ha rinunciato di buon grado ad utilizzare qualsiasi effetto speciale per affidarsi esclusivamente alla presenza reale e concreta di squali attirati con dei brandelli di tonno fresco e ripresi con la protezione di gabbie. Ma a parte difficoltà tecniche (gli squali si facevano fin troppo intraprendenti tanto da minacciare l’incolumità di attori e regista), la particolarità di Open Water si focalizza proprio nell’assenza di un intenso momento di orrore visivo. Eliminato qualsiasi accenno di splatter puro, si assiste all’esaltazione di un terrore che si nasconde dietro ombre, movimenti improvvisi dell’acqua, mentre cresce l’angoscia che mozza il fiato di fronte alla solitudine e al buio che si avvicina. Il film diretto da Chris Kent e dalla moglie Laura segue gli stessi parametri che fecero di The Blair Witch Project un successo inaspettato.

Nonostante la sua brevità (dura solamente ottanta minuti) Open Waterriesce a fara leva su quelle che sono le paure ed i timori più evidenti, amplificati ulteriormente da un metodo di ripresa documentaristico che proietta lo spettatore direttamente all’interno del dramma. Enfatizza i timori ancestrali legati all’incognita della natura, tanto da riuscire a cogliere e conquistare l’attenzione dello spettatore nonostante la completa assenza di colonne sonore e scenografie. Inoltre una qualità delle immagine non sempre professionale arricchisce l’andamento narrativo di un senso del reale ancora più coinvolgente, trasformando Blanchard Ryan (Susan) e Daniel Travis (Daniel) in vittime reali degli eventi e di una casualità negativa, sopraffatti da una angoscia che mozza il fiato. Comprensibile anche il tentativo dell’autore di voler esaltare ed esasperare i contrasti emotivi di una coppia attraverso un lento ma progressivo disgregamento delle loro certezze, anche se mostrare il logorio di due personalità che prendono lentamente coscienza dell’inevitabilità della loro sorte attraverso la ricostruzione di una perfetta scaramuccia familiare, non sempre riesce ad amalgamarsi armoniosamente con i toni fino a quel momento sostenuti. Certo è che, dopo fin troppi prodotti cinematografici che non hanno di certo lesinato nel mostrarci sangue rappreso e mostri di ogni tipo, Kent realizza un opera raffinata e sensibile affidandosi semplicemente all’oppressiva inconsistenza delle ombre. Un atto d’incoscienza artistica che, conquistata una posizione tra realtà che mirano sempre di più allo stordimento attraverso una sovrabbondanza di orpelli registici ed ad un eccessivo utilizzo di effetti speciali, dimostra come l’essenza di un successo cinematografico non può e non deve prescindere dalla validità dell’idea.

di Tiziana Morganti