La simbiosi di due anime sole
La visione scomposta e dileguata in un crepuscolo nipponico, il senso di parole dissennate che si disperdono nella vuota e insensata traduzione di pensieri, fanno di Bob Harris il perduto viaggiatore confuso e disorientato che offre la sua forzosa partecipazione fanciullesca e sognante. Sofia Coppola parla di amore quello vero, nel suo eterno divenire (forse nulla), ma colmo di attimi che assommati rendono un’eternità di emozioni. E proprio l’intensità di un’emozione è ciò che distrugge ogni barriera, ogni confine, che non conosce diversità di età, di credo o di cultura, è quel qualcosa che ci fa sentire veramente vivi. Al termine dei titoli di coda di Lost In Translation a Venezia si sarebbe levato un fragoroso applauso, ma il pubblico delle grandi metropoli non esprime in modo così partecipe il suo consenso. Questo film ha il sapore di un viaggio, di una parentesi che nasce come un disagio, ma poi rimane come qualcosa di indimenticabile; ci colpisce da subito il manifesto, l’immagine di un Murray rassegnato a non dormire per il jet-lag, a non capire nulla di quello che gli succede attorno, a non comprendere le istruzioni che il suo regista gli grida. Ma poi arriva lei (Scarlett Johansson), ed è tutto diverso: tra Bob e Charlotte c’è una chimica particolare, una comunione di solitudini, che li rende compagni di un viaggio alla ricerca dell’inserimento in una realtà nella quale loro malgrado sono stati catapultati. Pensando a questo film non riusciremmo a immaginarcelo con un altro attore che non sia Bill Murray: provate a pensare il protagonista di Ghostbusters, di Ricomincio da capo, di Osmosis Jones e Charlie’s Angels che si muove in una realtà alla Blade Runner fatta di neon, suoni, congegni elettronici e personalità eccentriche. Il tutto con una sapiente macchina da presa che scruta il suo ansioso e spasmodico cercare, che si muove silenziosa come una brezza marina, ma inesorabile nel fornire un’immagine di sé ad un Bob che si muove tra mille pareti specchiate, in un mondo che ha la necessità di vedersi, di trovarsi, mentre lui vorrebbe sparire, dormire, amare. Le tende della camera da letto si aprono elettronicamente e la luce di un nuovo giorno si impone con violenza a quegli occhi costretti e bombardati che non trovano pace.

Tokio, tra attimi ed eternità
Le uniche parentesi che i due protagonisti si offrono sono serate con amici, momenti di riposo, giochi. Charlotte ha la sua fuga, il marito è al lavoro, addirittura fuori città, e il suo nuovo amico è distratto per prestarle attenzione; dunque lei va a Kyoto, a conoscere quel lato del Giappone congelato nel tempo, fatto di tradizioni millenarie. Lì spia, nascosta dietro una piante, lo svolgersi di una cerimonia che la stupisce, come il bimbo di Akira Kurosawa in Dreams scrutava il passare di una solenne processione, nascosto tra le fronde degli alberi. In effetti quello di Sofia è un tributo alla solennità di alcune immagini, il commiato definitivo da quel tempo in cui la parola aveva un senso. Anche l’uso de La dolce vita, ricorda l’uso dell’elemento femminile come terremoto, come scossa elettrica che richiama all’azione, che devia dai cardini preposti. Una palese ma sottile differenza in effetti intercorre tra la Tokio caotica tutta luci, lampi e maghi dei videogames che zompettano e vivono le loro doppie vite virtuali, e quel Giappone scolpito nel tempo. Il fatto per Sofia di aver fatto tanti viaggi in Oriente è stato senz’altro un punto a favore per la realizzazione di questo soave e poetico film.

Una magia di interpretazioni
Oltre ad una brillante esposizione, uno dei punti di forza di questa seconda regia di Sofia Coppola è proprio la scelta di Bill Murray, il cardine, l’elemento portante. Sarebbe stato facile fare per lui fare del semplice autobiografismo nella creazione del suo personaggio (l’attore di mezza età), ma lui no, lui crea dal nulla Bob Harris, un uomo perso, solo, che fa ridere non con la dirompente espressività di un dr. Venkman, ma con la seria malinconia di un comico maturo, che crea risibilità dall’assurdo, dal paradosso. Se a lui aggiungiamo la freschezza di una ben dosata Scarlett Johansson, ecco che la magia si crea da sé e allora il pubblico viene coinvolto nella bellezza di una non-storia d’amore che coinvolge. More Than This recita un Brian Ferry storpiato da un karaoke improvvisato a casa di amici: cosa si potrebbe desiderare di più del vivere un sogno ad occhi aperti, un thriller amoroso che lascia con il fiato sospeso fino alla fine non scoprendo mai le sue carte, anzi, la regista si diverte a rimescolare il mazzo alla fine del film quando le parole rimangono semplice intimità da non svelare nemmeno allo spettatore. Bob e Charlotte si sono sfiorati, si sono guardati, si sono capiti, ma non si sono mai uniti, non c’è la musicale trasgressione di un François Ozon, né la morbosa ossessione di Kubrick: c’è solo la bellezza del sogno, di un desiderio che rimane tale. Le loro parole, i sussurri fanno parte di un mondo magico che è solo loro. Più che amore tradotto dunque un amore sognato, quello che proprio perché incompiuto, proprio perché fugace e bellissimo, non troverà mai una realizzazione e perciò non morirà mai.

di Alessio Sperati