Questo lungometraggio scritto e diretto da Billy Ray da un articolo di Vanity Fair di Buzz Bissinger, è incentrato su una storia vera, un giovane di nome Stephen Glass, astro nascente del giornalismo politico e di costume per l’autorevole “The New Republic” (siamo nel 1998), che inventava i suoi pezzi (ben 27 su 41 articoli in due anni di magazine!) di sana pianta, facendosi scudo attraverso un’immagine vincente e spigliata e uno spiccato senso dell’ironia, inventando di finte convention politiche, di hacker mai incontrati e di altre autorevoli finzioni. Il film, prodotto da un illuminato Tom Cruise, sostanzialmente diviso in due parti, ricostruisce l’ascesa e la caduta di Glass, prima mettendo in scena l’appeal e il carisma mascherato da timidezza che suscitava nelle riunioni di redazione, poi la notizia della sua inattendibilità da parte di colleghi di un sito internet e, dopo, l’editor che lo smaschera, lo licenzia e salva la credibilità del settimanale. Negli Stati Uniti capita che un pool di redattori sia formato da venticinquenni motivati e seri, il cui scopo primario è dare sempre verifica di quello che hanno scritto attraverso gli appunti e il continuo passaggio di veline tra chi controlla le fonti e chi si scervella per non incappare in noie legali con feroci smentite e negli anni presi in esame siamo nel secondo mandato di Bill Clinton, quando nel paese si dava più spazio alla sua ridicola relazione con Monica Lewinsky portando lo stato del giornalismo scritto a derive pericolose e false, quando si tentava di uscire da un chiacchiericcio gossip.

In questo caso la mela marcia è proprio chi si è conquistato la fiducia fin dall’inizio, che altri vogliono imitare, che è entrato nella grazie del suo capo, Michael Kelly, disponibile e disincantato, soppiantato da Chuck Lane, meno brillante ma assolutamente con i piedi per terra. Terribilmente paradigmatico di una tendenza a dare credito all’apparenza professionale piuttosto che alla sostanza, la sequenza in cui una giornalista correggendo un articolo di costume di una stagista le dice di non usare toni leggeri e caustici, perché: «Tu non sai far ridere!» L’attore Hayden Christensen nel ruolo di Glass, anche se smette i panni dell’Anakin Skywalker di Star Wars e si ricicla in un occhialuto ed ambizioso personaggio, non dà sufficientemente spessore alle dinamiche che hanno portato al Glass inventore di favole un non riconoscimento del suo lavoro da parte dei genitori che lo avrebbero voluto avvocato (come accadrà nella realtà). Più convincente Peter Sarsgaard, nel ruolo del capo privo di carisma e simpatia che contro tutti riesce a smascherare la follia di un bugiardo, senza trionfalismi, con una tristezza di chi deve convincere i suoi sottoposti che licenziare Glass era l’unica via di uscita per ridare fiato ad un giornalismo brutalmente taroccato. Il regista non cade in tentazione: in una pellicola avvincente e precisa toglie spettacolarità alle situazioni per seguire in lieve tono narrativo (a volte, forse, troppo piatto…) le conseguenze che possano avere le ambizioni personali e gli egocentrismi sui tanto bistrattati “raccoglitori di notizie” e sul bastonato “quarto potere”.

di Vincenzo Mazzaccaro