Il progetto a lungo covato da Marco Tullio Giordana esce finalmente in sala

«Noi sappiamo». È la risposta di Marco Tullio Giordana alle orribili stragi che devastarono il nostro Paese negli anni di piombo. Come quella di piazza Fontana, a Milano, che il regista lombardo porta sugli schermi il 30 marzo col film Romanzo di una strage, prodotto da Cattleya con Rai Cinema e distribuito da 01. La storia, scritta da Giordana con Sandro Petraglia e Stefano Rulli e affidata a un cast ineccepibile, con Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Michela Cescon, Laura Chiatti, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Giorgio Colangeli, Giorgio Tirabassi, Omero Antonutti, Thomas Trabacci, Giulia Lazzarini, Luca Zingaretti, ci riporta a quel 12 dicembre 1969 quando, in pieno centro cittadino, alle ore 16.37 una gigantesca esplosione devasta la Banca Nazionale dell’Agricoltura, ancora piena di clienti.

Muoiono diciassette persone e altre ottantotto rimangono gravemente ferite. Nello stesso momento, scoppiano a Roma altre tre bombe, un altro ordigno viene trovato inesploso a Milano. È evidente che si tratta di un piano eversivo. La Questura di Milano è convinta della pista anarchica, ci vorranno molti mesi prima che la verità venga a galla rivelando una cospirazione che lega ambienti neonazisti veneti a settori deviati dei servizi segreti. La strage di Piazza Fontana inaugura la lunga stagione di attentati e violenze degli anni di piombo. Nel corso di trentatré anni vari processi si susseguono nelle più varie sedi, concludendosi con sentenze che si smentiscono a vicenda. Alla fine tutti risulteranno assolti, la strage di piazza Fontana, per la giustizia italiana, non ha colpevoli.

«Il titolo – spiega Giordana – evoca  quel bellissimo intervento di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera del novembre 1974 che chiamò il “romanzo delle stragi”, in cui raccontava il ‘senso’ di quello che stava succedendo nel Paese. ‘Io so, ma non ho le prove’ scriveva Pasolini. Dopo quarant’anni abbiamo le prove, possiamo fare i nomi, è giusto farli. Possiamo dire ‘noi sappiamo’. E vogliamo far sapere, soprattutto ai giovani, che la scuola e la famiglia non aiutano a capire. Hanno diritto di sapere, è un dovere di chi fa cinema».

È partito da piazza Fontana perché, spiega «Se una tragedia come quella e la sua spiegazione entrano a far parte del dna della nostra cultura, evocano un sentimento di appartenenza, la nostra radice. Piazza Fontana non può essere solo un punto di domanda». Ha comunque aspettato 43 anni per farci un film. «Non avrei saputo farlo prima, dovevo liberarmi di molti pregiudizi, assorbire un urto simile – confessa il regista -. Su piazza Fontana all’epoca è stato fatto un lavoro di disinformazione, di depistaggio terribile, ci sono cascati, consapevoli e inconsapevoli, molti grandi giornali d’opinione di allora. La figura di Marco Nozza, cronista del Giorno, rappresenta l’informazione che non legge le veline ma consuma le scarpe. Senza giornalisti come lui non avremmo capito tante cose. E poi ho dovuto aspettare una certa maturità artistica per potermi mettere nei panni di tutti, anche dei personaggi più controversi. Pasolini ci ha insegnato la libertà dei punti di vista, che non significa rinunciare al proprio giudizio, ma percorrere tutte le tappe e formularlo alla fine, non prima».

Per portare a buon fine questo progetto ha avuto il pieno sostegno del produttore Riccardo Tozzi di Cattleya e di Rai Cinema. Produttori coraggiosi, le forze per fare ancora del buon cinema ci sono, e loro l’hanno intuito. «Il cinema italiano è in grado di fare film che parlino del paese al paese, con grande qualità a tutti i livelli, anche se il contesto non ci favorisce tanto – conferma Tozzi -. Gli sceneggiatori hanno fatto un lavoro enorme, senza retorica. La Rai svolge nel cinema funzioni di servizio pubblico con notevole coraggio. Ora che siamo partiti, vogliamo andare avanti con la Storia».

Favino interpreta l’anarchico Pinelli, volato giù dalla finestra della questura dov’era in corso l’interrogatorio. «Conoscevo quella vicenda – racconta l’attore -, mi attirano le storie di giustizia e ingiustizia. La sua famiglia mi ha accolto bene, è importante raccontare oggi un momento storico su cui riflettere. Dire che la verità esiste è un auspicio. E, nostro diritto chiederla. Devono vederlo i giovani perchè certi fatti non vanno cristallizzati».

Mastandrea, che fa il commissario Calabresi, per pudore non è voluto entrare in contatto con la famiglia. «Piazza Fontana è vicina per l’impunità che accompagna in maniera ossessiva il nostro paese – dice l’attore romano -. Il mio lavoro va oltre il film, è aperto, è stato il ruolo piu’ difficile in venti anni di carriera. Ci sono molte analogie col G8 di Genova, il meccanismo è sempre lo stesso, e pure l’impunità».