Macchiette addobbate con i peggiori stereotipi del pianeta omo

Come si fa a rappresentare i sentimentalmente “diversi” in maniera così becera, volgare e lontana dalla realtà come fa Good As You? La prima gay comedy italiana – come la definiscono gli autori – speriamo sia anche l’ultima di questo genere. Perché ce l’abbiamo tanto con questo filmetto pretenzioso, politicamente scorretto, e pure noioso, diretto da Mariano Lamberti, nelle sale dal 6 aprile in (per fortuna) solo una cinquantina di copie?

Perché i protagonisti, quattro maschi e quattro femmine, vengono dipinti come isterici imbecilli, infantili, in preda a continue pulsioni e confusioni sessuali. Se la cavano gli attori Enrico Silvestrin (entrato in corsa nel cast dopo il forfait dato da chi doveva interpretare il suo ruolo), Lorenzo Balducci, Daniela Virgilio, Luca Mascino, Elisa Di Eusanio, Diego Longobardi, Micol Azzurro e Luca Dorigo, ma non basta. È il quadro d’insieme che, ammettono gli stessi autori, è oltraggioso verso persone normali che fanno scelte sentimentali diverse dalla massa.

Che bisogno c’era di ridicolizzarli, farne macchiette addobbate con i peggiori stereotipi del pianeta omo? Per farli accettare? Ma non scherziamo. Come se i festini orgiastici, la ricerca del sesso a tutti i costi, le scenate di gelosia da “checche isteriche” (che, per carità, ci sono, come ce ne sono tra eterosessuali) fossero il loro unico, possibile e preferito passatempo. «Volevamo essere oltraggiosi fino in fondo – dichiara il regista – raccontando il mondo gay da dentro, senza avere paura. Abbiamo spostato il punto di vista perché in genere il tema dell’omosessualità è un gancio inserito in un contesto eterosessuale».

Confermando con queste parole che i veri discriminatori sono proprio quelli dentro il “clan”. Perché un etero intelligente non si sognerebbe mai di fare distinzioni tra chi è portato verso l’altro sesso e chi no. «Gli otto personaggi – tenta di spiegare Lamberti – sono maschere consapevoli che orgogliosamente rivendicano lo stereotipo». Ma il “circo” è spettacolo, non una regola di vita, tanto più in tempi difficili come questi dove i giovani non trovano lavoro, chi ce l’ha rischia grosso e comunque fa fatica a tirare a fine mese.

E non è corretto chiamare “libertà totale”, un casino come quello offerto nel finale del film, dove i nostri si accoppiano e si scoppiano a casaccio tra loro e, per darsi pace e metter fine (forse) a questi scambi compulsivi, pensano bene di superare il vuoto mentale che li attanaglia mettendo al mondo un figlio. Secondo il regista il film vuole presentare il mondo gay «Senza facili condiscendenze, senza finti pudori, dove al giudizio si sostituisce un osservare empatico ma allo stesso tempo oggettivo. Uno sguardo – precisa – non sul mondo gay ma dal mondo gay (dal suo mondo gay!), un qualcosa di veramente inedito per il nostro paese». E speriamo che qualcuno non pensi di fare il bis…