Quando parliamo di corporeità a cosa usiamo riferirci? A qualcosa di inconsistente che prende una forma. La casa dei 1000 corpi fa appunto parte di una cinematografia che si materializza secondo un criterio associativo che segue la “teoria del Caos”. Possiamo definirlo un sadico, macabro, divertito e contaminato guazzabuglio di immagini che diventa inspiegabilmente film e finisce, ancora più inspiegabilmente, in un circuito cinematografico. Ma anche l’effetto è spiegabile con la teoria del Caos: come una farfalla sbatte le ali in Florida e si scatena un uragano nello Utah, così Rob Zombie fa un film a Londra e io perdo un pomeriggio qui. Ma chi è questo stravagante personaggio che sembra aver fatto tutto nella vita eccetto il regista di lungometraggi? A una prima occhiata potrebbe sembrare uno dei personaggi del suo film, invece scopriamo un passato da rockstar e compositore per il cinema, (ha messo le mani anche nella colonna sonora di Matrix Reloaded), nonché da regista di videoclip per artisti come Dragula, Living Dead Girl e i Never Gonna Stop Me. Ora capiamo tante cose. Primo, la scelta del genere, secondo la non meno importante e conpulsiva scelta dello stile.

Nella caleidoscopica girandola di immagini disturbate e disturbanti che è La casa dei 1000 corpi, questo sceneggiatore / scrittore / regista / compositore / rockettaro ci mette un costante richiamo agli horror-road-movie anni ’70. In particolare sarà inevitabile il confronto con la saga Non aprite quella porta, e con il classico Le colline hanno gli occhi di Wes Craven. Per quanto riguarda il significativo e ampio tributo al primo, Zombie sembra conoscere alla perfezione ogni singola scena di ogni film della serie, anche quelli non di Tob Hooper. La cena degli sfortunati ragazzi ospiti della famiglia Firefly ricorda moltissimo la sadica cena di The Return of the Texas Chainsaw Massacre di Kim Henkel (1994) con una giovanissima Reneè Zellweger come protagonista. Ma non solo questo: Zombie fa propri anche alcuni attori come Bill Moseley, già presenti nella saga di Hooper. Non solo un tributo dunque, ma anche una miscela di immagini, situazioni, personaggi, quasi ci si trovasse a visitare la galleria degli orrori presentata ad inizio film, galleria che, in corso d’opera, diventa sempre più reale. L’orrore è, come sempre per il cinema americano di questa tradizione, un orrore visivo, fastidio più che tensione emotiva, e il risultato fa parte di un genere inquinato di sottotracce e riferimenti sconnessi, dove le immagini vengono intarsiate con stacchi di montaggio in pieno stile MTV a volte senza alcun senso di consequenzialità. Rob Zombie dà tutta l’aria comunque di essersi divertito nella realizzazione di questo film, ora la questione è se anche la platea riuscirà a fare altrettanto.

di Alessio Sperati