In anni di precariato senza freni o inibizioni, ovviamente si moltiplicano le pellicole di argomento lavorativo, e la forma commedia, con il suo impianto aritmico e tutto basato sul rapido ricambio di situazioni e variabili narrative, appare un corrispettivo perfetto di una condizione umana frenetica e instabile. E bisogna dire che In Good Company di ritmo e velocità narrativa ne ha, combinate ad una buona capacità di evitare gli snodi più risaputi. Non è tantissimo, non è poco visto che, di tutti i generi hollywoodiani, la commedia è forse quello che più ha sofferto il passaggio al “pastiche” postmoderno, data la sua necessità di ritmo e di senso della gag certosino. Certo, se si volesse puntare troppo sulla propria pignoleria critica, Paul Weitz non arriva ai vertici stilistici di Wes Anderson, né all’amarezza quasi orrorifica di Alexander Payne, eppure, visto (da chi recensisce) dopo Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Sideways il film regge, ha una sua qualità, una sua compattezza, perfino un abbozzo di poetica autoriale, che poteva sembrare quantomeno poco prevedibile nell’autore di American Pie. Eppure in tutti i film di Weitz, alla fine abbiamo la necessità di una presa di coscienza, una fuoriuscita dall’adolescenza, che può essere adolescenza reale (il Jason Biggs di American Pie appunto), oppure fittizia e autoindotta per proteggersi dal mondo (Hugh Grant in About a Boy). Qui l’adolescenza, intesa come luogo di irresponsabilità sociale, è addirittura bandita nella vita del ragazzo-manager Carter Duryea (Topher Grace), che inizialmente sfoga tutta la sua aggressività quasi da ragazzo selvaggio nel suo lavoro pubblicitario che ha bruciato le tappe, arrivando a posti di grande responsabilità a soli ventisei anni. Uguale e contrario al Hugh Grant della precedente pellicola di Weitz il povero Topher Grace vive in un mondo chiuso, anche se è iperattivo, ci viene mostrato come un pesce rosso chiuso in un acquario aziendale (simbologia un po’ facile, ma efficace), lasciato dalla moglie e affascinato dalla famiglia del proprio collaboratore (un Dennis Quaid inconsueto ed efficace, nell’apparente atonia del suo ruolo), a sua volta in crisi, invecchiato, rappresentante di un vecchio mondo degli affari idealizzato a bella posta per fare da pendant alla mostruosa e autoreferenziale costruzione sociale delle nuove corporations.

Il film si sviluppa dunque su tre registri: la presa di coscienza del giovane rampante, che scopre una famiglia, l’amore, distrugge la sua stessa carriera ed esce da quello che è un microcosmo quasi mentale, perfettamente strutturato e inquietante. La presa di coscienza del vecchio manager-venditore che di fronte alla prospettiva dell’invecchiamento e del licenziamento, non si adatta, ma riscopre una dimensione morale nella propria attività, come nel proprio ruolo di padre, passando da pubblicitario imbolsito e padre invadente e possessivo a un eroe quasi “capriano”. Infine la descrizione di un universo aziendale concentrazionario, chiuso e, come già detto autoreferenziale, dove le aziende di uno stesso gruppo si vendono i prodotti l’una all’altra per gonfiare i propri fatturati, senza badare più all’utilità del prodotto stesso. Facile? Forse si e infatti, rispetto alle pellicole di Payne e Anderson In Good Company risulta un po’ troppo chiuso nella sua tesi di partenza, ma anche efficace e poi non è niente male trovarsi di fronte Macolm Mac Dowell nel ruolo di un feroce tycoon. In fondo è come dire che Alex di Arancia meccanica, dopo la cura Ludovico, non è certo diventato più mite, ma ha soltanto riveduto le sue strategie di aggressione nei confronti del prossimo e ha deciso di sfogare i suoi bassi istinti all’interno del tessuto di regole che la società gli pone dinnanzi, destrutturandola con ben maggiore efficacia. Di fronte a questo meccanismo al tempo stesso autoritario ed eversivo Weitz prende una posizione quasi conservatrice, sceglie di comporre un elogio di una mentalità mercantile quasi umanista ed onesta, forse mai esistita, ma che gli serve per contrapporre al moloch aziendale dei nuovi tycoons, le singolarità degli individui. Il film forse non brilla per messa in scena e lavoro sugli spazi, però è onesto e funziona e forse rinuncia alle soluzioni palingenetiche, però indica opzioni di resistenza, non consolatorie, ma nette. In una fase di transizione come questa, la presa di coscienza è un preludio a una qualche trasformazione e non è poco.

di Francesco Rosetti