Con Il sole, Aleksandr Sokurov chiude una trilogia, iniziata con Moloch (1999) e Taurus (2001), nata come progetto artistico e storiografico di riflessione sulle dittature del Novecento e, in particolare, su coloro che le hanno incarnate. Dopo aver indagato sulle complesse quanto magnetiche personalità di Hitler e Stalin, il regista russo si è dedicato questa volta a uno dei personaggi storici del secolo scorso forse meno approfonditi, l’imperatore del Giappone Hirohito. Lo sguardo di Sokurov coglie e fotografa il momento cruciale del declino di questo grande imperatore che non si attua con la sua morte fisica, ma bensì con quella spirituale che coincide con la consapevole rinuncia al proprio stato divino, all’essere considerato discendente della “Dea Sole Amaterasu”. La macchina da presa lo segue nel silenzio del suo studio e nell’oscurità del suo bunker, durante le azioni quotidiane scandite da gesti lenti, misurati, controllati, che lasciano però trapelare emozioni profonde e una dimensione umana inaspettata. Sokurov indaga il dramma interiore di un uomo che deve affrontare, suo malgrado, la fine di una realtà che lui stesso aveva contribuito a costruire, l’accettazione e la presa di coscienza di una resa che è personale ancor prima che politica.

È soprattutto attraverso il confronto con l’altro che la personalità e insieme la tragedia interiore di Hirohito prende forma agli occhi dello spettatore: emblematici sono, infatti, gli incontri dell’imperatore con il generale MacArthur, altra grande figura chiave della seconda guerra mondiale, in quelle che sono alcune delle scene più suggestive del film. Il piccolo e timido imperatore sembra scomparire davanti alla sicurezza del suo vincitore, ai suoi modi decisi e ironici con i quali scruta ed esamina il suo avversario, lungo il filo di una incomunicabilità che è solo iniziale perchè destinata a trasformasi in lenta ma profonda comprensione. Sokurov non smentisce la sua poetica e, come era accaduto con lo splendido Arca russa, ci immerge nuovamente in un film costruito con grande rigore stilistico e fatto ancora una volta di silenzi, di cerimoniali, di inchini, di sguardi, di particolari che compongono, in questo caso, il percorso sofferto di un uomo e del suo Paese verso il tramonto di antichi valori e verso l’inevitabile apertura alla modernità.

di Valentina Domenici