Ogni nazione ha un momento sportivo che è impossibile da dimenticare. Per l’Italia la semifinale dei campionati del mondo di Messico ’70 e la finale di Spagna ’82 sono senz’altro ricordi indelebili, guarda caso entrambe partite vinte contro la nazionale tedesca. Quella stessa nazionale che nel 1954 riuscì a sovvertire ogni pronostico vincendo i campionati del mondo in Svizzera contro la formidabile compagine ungherese. Un evento che ancora oggi viene considerato come una sorta di punto di svolta per la Germania che faticosamente stava cercando di uscire da un trentennio che definire tragico non rende ancora l’idea. È proprio questo l’elemento più importante che Sonke Wortmann ha cercato di non perdere nel raccontare Il miracolo di Berna. La struttura di questo film sportivo, genere che non ha mai avuto grossa fortuna nel nostro caro Vecchio Continente, a causa soprattutto dell’impossibilità da parte dei cineasti non americani di elevare ai massimi livelli l’afflato epico del gesto atletico. Sarebbe questo il discorso più che parlare del film, su cui c’è in realtà non molto da dire, soprattutto perché il pubblico italiano gode di più a vedere la nazionale teutonica subire disfatte epocali. 

Il miracolo di Berna ha infatti i limiti che sono comuni a buona parte del cinema tedesco, ovvero un’impianto scenico smaccatamente televisivo, a dispetto del budget che in questo caso era anche abbastanza elevato. Anche le interpretazioni sono francamente piatte e la cosa migliore sono i divertenti intermezzi con la giovane coppia formata dall’entusiasta giornalista sportiva e la sua mogliettina. Per il resto, la disamina psicologica della figura del padre di famiglia tornato da nove anni di prigionia in Russia è piuttosto superficiale, così come le reazioni della moglie e dei figli al suo ritorno. Il racconto della spedizione mondiale è basato più su frasi fatte che altro, tanto che la sceneggiatura sembra scritta dal grande vecchio Vujaidin Boskov. Anche l’aneddoto sull’invenzione dei tacchetti intercambiabili viene buttato lì come se niente fosse, mentre poco e niente viene mostrato dei metodi d’allenamento. Solo la fatidica finale ci viene mostrata, ma curando di più la ricostruzione digitale degli spalti, piuttosto che il match. Comunque, pur con tutti i difetti del caso, c’è da dire che almeno adesso la Germania ha un’opera cinematografica riferita a una delle più importanti vittorie sportive della loro storia. In Italia al massimo abbiamo Italia – Germania 4-3 in cui i quarantenni di Umberto Marino si piangono addosso riguardando il mitico match. Si può fare di meglio. In Italia e in Germania.

di Alessandro De Simone