Dove si sono nascosti la sferzante ironia e la profonda drammaticità shakespeariana? Dietro quale muro di elegante inespressività si è celata la complessività caratteriale dell’ebreo Shylock ma, più di ogni altra cosa, sotto quali pesanti costumi è stata costretta l’intensità interpretativa di Al Pacino? Michael Radford si lancia in una delle avventure più ardue dal punto di vista cinematografico: interpretare un classico della letteratura e del teatro cercando di non cadere vittima del già visto e del già sentito. Un tentivo che il regista, candidato all’Oscar per Il postino non riesce a sostenere in modo adeguato fino in fondo, producendo un opera che, pur basandosi su di una evidente eleganza stilistica, non convince e coinvolge fino in fondo. Certo non si può pretendere di giocare sulla sorpresa se si sceglie di mettere in scena Il mercante di Venezia, ma avere a disposizione un talento puro ed istintivo come quello di Al Pacino e “guidarlo” verso una interpretazione che del minimalismo fa il suo credo, appare come una incapacità di saper sfruttare doverosamente un’occasione irripetibile. Nato sui palcoscenici, vincitore di due Tony (l’oscar del teatro) , ed interprete e realizzatore di “Riccardo III, un uomo, un re”, un film inchiesta sull’eredità shakespeariana nel mondo contemporaneo, Pacino si aggira lungo una città che appare più falsa, volgare e teatrante di qualsiasi pessima scenografia. Il Mercante di Venezia è uno dei dei drammi più struggenti e discussi usciti dalla penna del drammaturgo inglese, soprattutto per la figura dell’usuraio Shylock, una vicenda di delusioni umane e di sconfitte che Radford ha scelto di narrare non solamente rimanendo fedele al testo (aspetto per altro positivo) ma cercando e perseguendo dei toni così mitigati da risultare incolori. Spinto dal regista a vivere in modo quasi ambiguo il proprio dolore, a non calcare su delle atmosfere e delle intonazioni più teatranti, Pacino offre uno Shylock fin troppo strisciante e, forse, non completamente condiviso dalle sue corde e dalla sua concezione di attore. Uno stile che Radford ha perseguito, secondo le sue dichiarazioni, per rendere più accessibile e comprensibile al pubblico lo stile a volte ermetico di Shakespeare ma che lo ha condotto verso il risultato di un opera dalle immagini fin troppo scontate, dalla scarsa modernità e dalla pesantezza stilistica. Se si torna indietro di qualche anno non è difficile rintracciare delle esperienze cinematografiche di maggiore impatto emotivo, lo stesso Giulietta e Romeo di Zeffirelli risulta ancora oggi, dopo più di trent’anni, più coinvolgente ed artisticamente completo.

di Tiziana Morganti