È l’America di Hoover e Roosvelt che il regista Ron Howard racconta attraverso le immagini e le parole del dimenticato scrittore e sceneggiatore della Hollywood dorata Daymon Ruynon nella sua ultima pellicola, probabile futura candidata alla notte degli Oscar. Con una fotografia da effetto realistico, su tonalità tra il grigio e il marrone, Cinderella Man celebra le gesta, non solo atletiche ma soprattutto umane, del pugile irlandese James J. Braddock con momenti di rara intensità e metafore da favole capriana; il periodo preso in esame va dal 1929 al 1935 nel quale il Paese si avviava ad attraversare una delle fasi più difficili e aspre della sua storia: la Grande Depressione. La macchina da presa non cattura le pur spettacolari azioni della boxe ma si concentra in modo approfondito sulle piccole cose, amare e disperate, come la fila davanti alle fabbriche per ottenere un lavoro e portare a casa il pane o frammenti di vita di una modesta famiglia. Il dolore, la fame, la miseria, la ricerca di forza per reagire e lottare devono far riflettere quanto, aggiunge l’autore, il benessere di oggi non sia un diritto acquisito. Come sempre accade in opere che si basano sulla vita di personaggi del passato emergono discrepanze sulla figura reale e la trasposizione cinematografica: si pensi al trattamento riservato allo sfidante Max Baer sullo schermo arrogante, presuntuoso e compiaciuto della sua nomea di assassino, nelle cronache invece delineato come un individuo ossessionato dal senso di colpa per aver commesso un così terribile gesto.

Anche il protagonista incarnato dal fisico possente di Russel Crowe (dopo il matematico angosciato e schizofrenico ancora una prova indimenticabile come antieroe segnato dai segni del dramma con il quale convivono lui e i suoi cari) non sfugge alla critica feroce dei biografi o semplicemente dei tanti denigratori del film convinti che Howard e il fido sceneggiatore Akiva Goldman (tra i migliori sceneggiatori contemporanei) abbiano romanzato un po’ troppo l’icona del boxeur. Tra le sequenze migliori ricordiamo il furto del salame poi restituito e la decisione di consegnare il sussidio da parte del John Doe in guantoni una volta tornato a combattere. Accanto a Crowe si stagliano con prepotenza le figure di una graziosa Renée Zellweger e di Paul Giamatti fido trainer (le riviste americane lo hanno definito, non a torto, il miglior caratterista del mondo) e inseparabile amico del protagonista. Dopo una prima parte lenta e compassata e prettamente introduttiva, dove come spesso accade per questo genere di cinema l’occhio della cineprese si preoccupa di inserire l’individuo in un contesto (qui politico, economico e sociale) ambientale, il lungometraggio scorre piacevolmente con una linearità e compattezza per nulla invidiabile a tanti classici dell’epoca diretto verso una sequenza finale (i round esaltanti con il campione del mondo) che mostra la folla composta da gente comune ad inneggiare il loro mitico beniamino.

di Ilario Pieri