Al termine di un percorso di dolore e negazione giunge inaspettata un’emozione. Non un travolgimento improvviso e sconvolgente, quanto una lenta e insinuante presenza che scava nella parte più intima, sussurrando interrogativi sulla fragilità umana, sulla facilità di perdersi e sul bisogno di appigli mistici e intimi per determinare la semplice motivazione della nostra esistenza. E se l’anima è il centro dell’intera discussione, il fine non è certo quello di ricercare risposte precise, né di ottenere definizioni certe, quanto di osservare gli effetti del dare e del togliere, sperando di rintracciare nel vortice dellla perdita e dell’insicurezza una traccia di se stessi. Che conquisti o lasci perplessi, che commuova o disilluda, è improbabile allontanarsi dalla visione di 21 Grammi senza avvertire più forte e costante la presenza dell’incorporeo, dell’immateriale gravare e condizionare la complessità di una vita. Un peso che alcuni chiamano anima e che sembra rispondere all’unica certezza che Dio toglie e Dio dà per donare agli uomini l’opportunità di cadere, spazzare via le proprie vite e risalire a nuova esistenza con maggiore consapevolezza.

Una natura che Inarritu ha scelto di delineare e comprendere partendo, probabilmente, da presupposti religiosi, ma osservandola liberamente in ogni sua espressione e manifestazione laica all’interno di una narrazione priva di orpelli musicali, fotografandola attraverso immagini sporche, “fastidiosamente” somiglianti alla vita. Un percorso onestamente complesso, reso ancor meno immediato e leggibile da un montaggio a incastro dove passato e presente si intrecciano in un vorticoso rapporto di osmosi, e da un lento susseguirsi di eventi trascinati da un monocorde ritmo esistenziale. Certo il rischio potrebbe essere una stupita insofferenza di fronte ad un dolore che sceglie di non urlare attaverso picchi emozionali, preferendo avvolgere lentamente in discendenti spire ipnotiche, ma il dissolversi di ogni dubbio si ottiene grazie all’umana intensità fatta di carne e spirito dipinta sul volto graffiato e segnato dalla vita di Benicio Del Toro (premio Oscar per Traffic). Emblema del rapporto amore/odio tra uomo ed il divino, rappresentazione di una febbricitante necessità di immolare se stesso in nome di una fede incisa nella profondità della propria pelle, luciferina creatura tornata dall’inferno e di nuovo caduta, delinea, attraverso la bruciante incomprensione di un abbandono, l’universo di sofferenza che lega vite sconosciute alla propria.

Privati della sua rabbiosa incomprensione nei confronti di un disegno divino che lo vuole ancora colpevole e di una cieca necessità di espiazione, l’intricata, intima dipendenza emotiva intrecciata tra Sean Penn e Naomi Watts non avrebbe alcuna possibilità di evolversi all’interno del dolore e dell’impellente necessità di vendetta, verso l’inaspettata visione di una nuova possibilità di essere. Ben lontano dal voler determinare la nascita di innovative teorie sull’identificazione dell’anima, Inarritu regala esclusivamente una debole e non sempre certa luce di speranza, da ricercare con particolare attenzione e coraggio tra le trame fitte di una disperazione che appare senza alcun ritorno. Delinea i tratti fondamentali di un film che, probabilmente, non è nato per suscitare un impatto improvviso, ma per rimanere silenziosamente ad alimentare i dubbi e le speranze trattenute in quei relativi 21 grammi, che costituiscono il peso irrisorio di cinque monete una sopra l’altra, di una pallina di cioccolato, e di un’intima carezza che lieve sfiora le nostre vite, imprimendo loro una vibrazione che sa di eterno.

di Tiziana Morganti