Fingersi ebrei in Israele e avere la pelle nera, nerissima, la pelle di chi viene da un paese lontano come l’Etiopia. Fingersi ebrei per salvarsi, per fuggire dai campi profughi del Sudan dove si muore come mosche e un domani non si intravede neppure. Shlomo è solo un bambino, un cristiano etiope che, lungo la strada sino al Sudan, ha perso già tutti i familiari tranne la madre: è lei che lo lascia, mano nella mano, a un’altra donna, un’altra madre, falasha, che ha appena perso suo figlio e ha un posto sul pullman che porta ad Israele. Così Shlomo parte con una piccola frotta di ebrei etiopi, trasportati segretissimamente dal Mossad nella Terra Promessa. Era l’anno 1984 e l’Operazione Mosé: ne partirono ottomila, ne arrivarono la metà. Ci voleva Radu Mihaileanu, pluripremiato regista di Train de vie ma, prima ancora, lui stesso profugo, nascosto dietro false identità e false appartenenze («In Romania mio padre per sopravvivere ai nazisti e poi agli staliniani durante la guerra ha dovuto cambiare nome; io sino a quattro anni non ho neppure saputo di essere ebreo, poi ho mantenuto la sua identità, dalla Romania sono arrivato in Francia da solo, a ventidue anni e ancora adesso sono considerato uno straniero»), ci voleva un ebreo sradicato come lui a raccontare la storia dei falasha, una tra le tante perdute nell’oblio collettivo, in questo Vai e vivrai in arrivo nei nostri cinema ma il cui titolo originale, Va, vis et deviens (Vai, vivi e diventa) diceva già tutto, in tre capitoli il senso di ogni tappa della storia.
Ed è come se questo film cominciasse laddove Train de viefiniva: in un campo profughi. Ma, stavolta, è per ripartire verso una salvezza forse possibile, certamente lacerante. Incerta persino, anche dopo essere arrivati nella terra del latte e del miele, anche allora la pace cercata non c’è e accanto a chi porge le mani, ci sono tutti gli altri. Perché anche Israele è come tutto il mondo. Come dice il regista, «Tra gli israeliani ci sono persone che hanno accolto gli etiopi a braccia aperte ma ci sono anche persone che li hanno respinti e continuano a farlo. Non si può accusare un intero Stato di razzismo ma una parte dei suoi abitanti senz’altro. Perché qui è come dappertutto, anche se spesso si pensa ad Israele come uno Stato eccezionale e compatto, magari di destra. Ma la cosa è più complessa e io, nel film, ho voluto proprio mostrare che, accanto ai razzisti e ai fondamentalisti, ci sono gli uomini tolleranti e democratici, magari di sinistra come la famiglia adottiva di Shlomo». Nel dubbio il bambino Shlomo, non sapendo mai chi si troverà un attimo dopo davanti, finge e studia. Di notte, l’ebraico e la Torah. Studia per integrarsi e, insieme, per nascondersi. E, alla fine ce la fa. Persino, nell’ultimo fotogramma di questa odissea raccontata con troppe ridondanze, melodrammaticamente sfilacciata, ce la fa a ritrovare la vecchia madre, quella che l’ha abbandonato per salvarlo.
di Silvia Di Paola