Un’esperienza visiva ed emotiva prorompente, ricca di poesia, un cinema che fa sognare . Lo propone Lech Majewski col suo visionario Valley of the Gods, esclusivamente al cinema dal 3 giugno, distribuito in sala da CG Entertainment in collaborazione con Lo Scrittoio.       
Il maestro polacco, che si definisce un figlio del cinema italiano, influenzato da registi come Kubrick, Fellini, Antonioni, torna ad affrontare temi a lui cari come l’amore, la perdita, il sogno, l’arte. Filo conduttore di tutta la pellicola è l’enorme contrasto tra sistemi di valori diversi: il mondo ancestrale dei Navajo, abitanti della Valle degli Dei, connessi ai loro antenati, e quello dell’uomo più ricco del mondo, il magnate, collezionista d’arte Wes Tauros (John Malkovich) che vive nascosto dal mondo in un misterioso palazzo, conservando un segreto che lo tormenta. Lo scrittore John Ecas (Josh Hartnett), dopo una separazione traumatica dalla moglie, inizia a scrivere la biografia di Tauros e accetta un invito nella sua magione. La società del magnate, che estrae uranio, ha deciso di scavare anche nella Valle degli Dei, violando una terra sacra: secondo un’antica leggenda Navajo tra le rocce della Valle sono rinchiusi gli spiriti di antiche divinità.

Tutto ciò che accade lo vediamo attraverso gli occhi e le descrizioni di uno scrittore. Non sappiamo se abbia rappresentato la pura realtà o se l’abbia piegata alla sua scrittura. Siamo nella mente dell’artista, e questa è l’idea alla base del film, che è una sorta di una vendetta di Majewsky contro il cinema commerciale, attraverso una visione onirica che dovrebbe risvegliare il pubblico dal torpore. Ha quindi rappresentato il corto circuito tra la vita dei ricchi prigionieri dei loro soldi e quella dei poveri ricchi di spiritualità. Un viaggio interiore dove i personaggi sono metafore della nostra forza e delle nostre debolezze. “Un bell’omaggio agli esseri umani e alle nostre esistenze” sottolinea Berenice Marlohe, protagonista al fianco di Keir Dullea, John Rhys-Davies, Jaime Ray Newman.
“Ero interessato al confronto tra il mondo opulento occidentale e la spiritualità dei poveri – spiega il regista presentando il film online -. I Navajos della Monument Valley erano riluttanti a parlare con noi, la loro vita interiore è molto più interessante e profonda della nostra. Ho voluto mostrare che l’uomo più ricco della terra che vive in cima a una montagna, in un mondo completamente protetto, una volta che si confronta con la realtà comune può diventare completamente vulnerabile.”

E’ convinto che oggi la fantasia sia un’arma pericolosa a livello sociale e, soprattutto, politico. Per questo ha messo il simbolo del potere al centro delle tre storie distanti tra loro, che si intrecciano e si scontrano nel film, girato tra gli Stati di Hutah, New Messico, Arizona e i sontuosi interni di vari castelli della Polonia meridionale. “La mia immaginazione è stata accesa dalla bellezza di queste terre – confida Majewsky -, ma ancora di più dal contrasto tra l’apice della civiltà occidentale, incarnato dagli Stati Uniti, e la popolazione nativa americana, che vive in condizioni di disagio. Nonostante ciò la loro vita interiore è molto ricca, hanno degli strumenti diversi dai nostri per leggere i segni della terra: loro non guardano solo le tracce, leggono anche il cielo, le nuvole, le rocce, ogni cosa rappresenta una storia e ha un suo specifico significato”.
Non mancano spettacolari effetti speciali. “Poiché la storia si focalizza sulla creatività scaturita dalla mente di uno scrittore – spiega ancora il regista – ho cercato di impiegare gli effetti visivi per descrivere il suo mondo e per ‘costruire’ il castello in cima alla montagna dove vive Wes Tauros. Detesto i film che sfruttano gli effetti speciali solo per il gusto di farne sfoggio, nel cinema di oggi ce n’è una tale abbondanza, una vera e propria pornografia, che rischia di anestetizzare gli spettatori. Io ne faccio un uso più poetico”.