La borghesia napoletana, ricca, strafottente, cinica, amorale, meno nota alle cronache ma intimamente quasi più violenta della camorra. Così la descrive Enrico Iannaccone nel suo ottimo film d’esordio La Buona Uscita, coprodotto con Luciano Stella, nelle sale con Microcinema. Una commedia amara, dai toni grotteschi, coi colori e le atmosfere del giallo psicologico, che parla di solitudine e malaffare, girata in soli venti giorni in una Napoli piovosa, non da cartolina, che senza sparatorie e spargimento di sangue trascina man mano lo spettatore tra i meandri della sordida esistenza del protagonista portandone allo scoperto tutta la ferocia, abilmente celata dietro buone maniere e ingannevoli sorrisi, resort e ristoranti di gran classe.

Un modo inconsueto e interessante di fare cinema, di muovere la macchina da presa (soprattutto se per mano di un ventisettenne, anche se già premiato in vari festival per i suoi corti), di raccontare  una storia di malavita scavando nell’anima del luciferino protagonista, uno snob annoiato e straricco industrialotto dai traffici oscuri, che fa volutamente fallire la propria azienda facendo però andare in galera al suo posto un ignaro salumiere bisognoso di soldi, in cambio di cifre a molti zeri e regali costosi per i figli.

Una parte che il giovane più che promettente Iannaccone, prendendo spunto dalle cronache dei giornali, ha cucita su misura del bravissimo Marco Cavalli che sa dare il giusto gelido distacco al personaggio. Scelta perfetta anche Gea Martire per la matura amica ninfomane, unica donna veramente amata dal nobile e ignobile anaffettivo boss. Voluti i dialoghi verbosi, l’impostazione teatrale della recitazione, per catturare la cattiveria intellettuale dei personaggi, renderli simili a marionette nel teatrino delle relazioni e degli affetti, in preda a dolore e isolamento. Essendo anche musicista, l’autore ha scelto la Milonga per accompagnare un amaro e poco romantico addio, la musica elettronica per un tocco di thriller. Un interessante quadro sulle relazioni umane, assolutamente da non perdere, che l’autore paragona a “una pizza fritta, con la ricotta dolce dei cannoli”.