Prima di vedere questo film, ricordiamoci da cosa è tratto, dimentichiamoci ogni riferimento alla realtà e gettiamoci a capofitto in questo tunnel dei divertimenti ben confezionato da uno dei più talentuosi direttori della fotografia oggi in circolazione, l’olandese Jan De Bont. Il suo primo titolo da regista è anche l’onomatopea del suo fare cinema: Speed, film del 1994 dove velocità, ritmo e tensione prendevano già il passo sulla narrazione stessa. In Tomb Raider – La culla della vita succede un po’ questo: veniamo sballonzolati da una parte all’altra del globo senza capire spesso il come e il perché, e se aggiungiamo il fatto che, traendo spunto da un mondo virtuale, non c’è limite alla fantasia, la visione del reale si perde completamente. Ecco allora prendere vita alcune scene dove la bella Lara prende a pugni uno squalo o dove, salendo sulla cima di un grattacielo in costruzione, Lara e Terry trovano come mezzo di fuga due tute da “Sky-diving” ‘dimenticate’ da qualche operaio. In questo Vaso di Pandora (è proprio il caso di dirlo) di contaminazioni e similitudini, siamo indecisi se assegnare maggiori somiglianze al mondo raffinato e sottilmente filobritannico di James Bond o a quello avventuroso e parzialmente soprannaturale di Indiana Jones. Una cosa è certa, in Tomb Raider non ci si annoia e le scene sono anche di un certo effetto visivo, quando poi ci si voglia interrogare sulla loro funzione, beh, è tutta un’altra storia. Molto bella l’interazione con la ‘foresta’ di luci al neon di Shangai, alternata ad affascinanti quanto brulli paesaggi africani, dove è tuttavia la tecnologia a farla da padrone. In effetti, non si capisce per quale connessione di idee, Lara Croft è “tecnofora” ai massimi livelli: lei porta l’innovazione in ogni parte del mondo, è l’emblema massimo dell’evoluzione tecnico-scientifica. In Tomb Raider anche gli Zulù usano il cellulare e, in una tranquilla baracca di un villaggio di Hong Kong lei porta Internet e una sfera olografica. Veicolo di globalizzazione tutta curve, Lara non è altri che il prodotto di una società che ha come fine lo sviluppo e l’evoluzione tecnico-informatica e come tale neanche de Bont riesce a sottrarle il ruolo primario di ‘sponsor’ di marchi legati in qualche modo all’informatica e alle telecomunicazioni. Una delle note positive, ma che purtroppo non potremo notare nella versione italiana, è il bell’accento britannico vantato dalla Jolie e che la cala ancora di più nel personaggio della Bond al femminile. Oltre a ciò il film supera quella presenza di buchi nella narrazione che rovinava oltremodo il primo capitolo della serie.

di Alessio Sperati