Cambia il mondo e cambia anche l’Africa di Sidney Pollack che passa dall’essere teatro dei sogni di Meryl Streep al crogiuolo di genocidi di Silvia Broome, sudafricana mimetizzata sotto una pelle di porcellana e un lavoro alle Nazioni Unite. Non c’era riuscito nemmeno Hitchcock a farsi aprire le porte del palazzo di vetro e invece Pollack ha ricevuto le chiavi di casa da Kofi Hannan in persona per raccontare, con un realismo a tratti documentaristico, l’incepparsi di un meccanismo perfetto nella storia di una interprete (Nicole Kidman) che, involontariamente, si trova ad ascoltare un piano segreto per uccidere un capo di Stato africano in prossima visita negli States. Sia il nome del dittatore (Zuwanie) che quella del suo paese (Matobo) sono frutto di fantasia, ma le rispondenze con le malefatte del dittatore Mugabe dello Zimbabwe rendono facile l’accostamento, ed anche il nome Matobo è quello di un noto parco nazionale zimbabwense. Il fatto che quella minaccia di morte sia stata formulata in un idioma (l’immaginario Ku) che solo la Broome sarebbe stata in grado di interpretare, insospettisce l’agente FBI Tobin Keller (Sean Penn), incaricato della sicurezza dei Delegati di Stato. Tra i due si crea così uno strano rapporto di (s)fiducia reso ancora più difficile da una complicata attrazione tra i due e dalle parole di lei non sempre al miele: «Devo essere sincera con te: non so se posso essere sincera con te!».

Sebbene gli sviluppi di questo “political thriller” siano a tratti scontati, Sidney Pollack, che definisce il suo film come «Un thriller e una storia d’amore pieno di inseguimenti e di persone in pericolo», riesce a creare un giusto grado di tensione, anche aiutato dai suoi due primi attori, capaci di un vero e proprio duello interpretativo. Sean Penn si diverte a ribaltare il suo ruolo in The Assassination tirando fuori un malinconico uomo di legge dal cuore spezzato mentre la Kidman, che aveva già lavorato con Pollack quando era in veste di attore in Eyes Wide Shut e in quella di produttore in Ritorno a Cold Mountain, ha accettato la parte senza neanche leggere la sceneggiatura. I temi sono attualissimi e le scene di sicuro impatto emotivo, come quella, ad alto tasso di tensione, dell’attentato dinamitardo su di un bus in pieno centro che pare aver anticipato la realtà di pochissimo. È inevitabile percepire nelle due ore di film la presenza di un certo propagandismo di fondo, a sorpresa proprio nelle parole del genocida Zuwanie «…Anche un bisbiglio può essere udito al di sopra degli eserciti, quando dice la verità», ma The Interpreter contiene anche una sottile riflessione sul tema della vendetta, tanto di moda nella cinematografia contemporanea, descritta come “Una pigra forma di sofferenza”. Curioso che dietro tutto ci sia sempre qualcuno, come direbbe Claude Sautet, con “il cuore in inverno”.

di Alessio Sperati