Si parla di documentario e dunque bisogna partire necessariamente da Michael Moore, anzi dal dopo Moore, visto che, come in altri generi (il documentario come lo intenderemo, o meglio come lo intende Moore è un genere con proprie regole di costruzione dell’immagine e drammaturgia), un autore con una spiccata sensibilità formale (quindi morale e forse politica) tende a identificarsi in toto nella mente dello spettatore, con le forme in cui si esprime. È successo in svariati contesti, da Hitchcock con il noir a Lubitsch con la commedia sofisticata a Ford e Sergio Leone con il western, fino ai giorni nostri in ambito postmoderno con Almodóvar e il melò per fare un esempio abbastanza clamoroso. Ovviamente nel circuito recensorio nostrano, che non perde mai occasione per sfoderare sfolgoranti prestazioni di provincialismo misto a dozzinalità, questo ritorno del documentario è stato salutato come “nostalgia” della realtà, intesa come realtà sociale, nostalgia che il cinema manifesterebbe come tardivo senso di colpa incistato sotto la rutilanza tecnico-spettacolare del tardo postmoderno. Ovviamente posta così la questione risulta terribilmente schematica e semplicistica, visto che il documentario di controinformazione alla Moore parte da una forte coscienza di sé come spettacolo e non nega il suo statuto di rappresentazione, anzi lo esalta, lo esplicita arrivando al blob di immagini (d’altronde il suo parente stretto è il reportage giornalistico). Da Roger and me a Bowling a Columbine a Fahrenheit 9/11 Moore costruisce le sue pellicole come narrazioni a tesi fin troppo smaccate, duelli rusticani con tanto di rendez vous finali, “OK Corral” con tanto di villain ufficiale, che può essere un amministratore della General Motors, un attore con la mania dei fucili, un presidente degli Stati Uniti con vocazione alla polvere da sparo, e proprio la costruzione esibita e la manipolazione di materiali visivi, di scarti visivi eterogenei, finalizzati alla narrazione-tesi (Moore utilizza il cartoon in maniera assimilabile a quella di Tarantino in Kill Bill), gli consente di evitare la manipolazione sotterranea.

Tanto tendenzioso e volutamente parziale Moore nelle sue (pure a volte incontrovertibili) affermazioni da consentire allo spettatore di orientarsi, se vuole, più attraverso i singoli scarti visivi e la loro polisemia, che grazie alla frenetica scrittura di montaggio delle pellicole. Leggere così il documentario ad alto tasso spettacolare di Moore e di chi lo segue in questa strada (e arriviamo finalmente a The Corporation), significa intenderne meglio il possibile valore di verità. In The Corporationaddirittura si arriva a stendere un profilo psicologico della multinazionale standard (risultato ovvio, psicopatico), trattata come un personaggio elisabettiano, a volte grottesco a volte crudele, sempre temibile. Ora se nella recensione ci si perdesse a descrivere minutamente di tutti gli aneddoti inquietanti (e sono tanti) che vengono snocciolati davanti allo spettatore non si farebbe niente di più rispetto a quanto fa abitualmente una organizzazione ecologista nei suoi siti, stilando giustamente elenchi anche più impressionanti di malefatte chimico-tecnologico-industriali operate da grandi trust. È inevitabile pensare che, dal punto di vista di una seria indagine sul sistema di funzionamento delle multinazionali, sulle sue articolazioni interne, definire una grande corporation tramite un referto clinico destinato ai singoli individui, può sembrare un’idea divertente, paradossale, ma anche semplicistica e certo non scientifica, una provocazione che ci si potrebbe permettere solo in un libro (The Corporation è tratto infatti da un libro di Joel Bakan), dove al momento del paradosso gustoso seguirebbe un’adeguata dimostrazione nella forma del saggio, ben più compatta e consequenziale di quella frantumata del documentario per immagini. Ma qui, come nei film di Moore, il valore di verità non è dato (solo) dal contenuto manifesto, ma anche dal contenuto latente delle immagini-segni, veicolato dalla forma del blob.

Ci troviamo di fronte ad un enorme supermercato di immagini (ognuna con un proprio valore a livello simbolico) ritessute senza sosta a livello di significato e decontestualizzate dal loro uso corrente. L’utilizzo di materiali così eterogenei consente allo spettatore di sfuggire ad una nuova forma di manipolazione, magari operata nel nome nobile della controinformazione e di riflettere sullo statuto dei segni che si trova davanti agli occhi, sui codici linguistici e ideologici cui rimandano, che preesistono al meccanismo narrativo che li manipola e alle stesse corporation, manifestazioni queste ultime di fenomeni storici ben più ampi (Il capitalismo? La borghesia? La società industriale? Il biopotere di Foucault? Il totalitarismo sempre latente in varie forme nell’animo occidentale postilluminista? Il paneconomicismo dell’uomo occidentale e la sua volontà di potenza? A voi la tragica scelta). Inoltre questa tipologia di film manifesta chiaramente e con molta onestà non solo e non tanto la sua tesi di partenza, ma anche il suo itinerario produttivo dei significati, cosicché lo spettatore possa saltare più agevolmente di quanto si pensi la semplice costruzione a tesi, andando oltre la provocatoria invadenza delle sequenze. Spieghiamo meglio: il grottesco di alcune scene (un potente amministratore della Shell che offre tè e pasticcini ai manifestanti ecologisti che hanno invaso la sua villa, oppure in Fahrenheit 9/11Wolfowitz che si pettina) non è visto come una dimostrazione matematica di un marciume, ma è un punto di partenza. Passare dal grottesco anche pedestre ad un’acuta analisi dei meccanismi profondi che soggiacciono a queste manifestazioni visive non è compito del documentario, che è invece quello di riflettere sullo status polisemico delle immagini e di dargli spessore simbolico, evocatività, farne scrittura.

Ovviamente qui, manca la genialità di Moore cineasta, la sua capacità di farsi logo, griffe, mettendosi nei suoi film sia a livello letterale che di scelte formali (ma qui il discorso porterebbe troppo lontano, alle modalità tramite le quali i maggiori autori del postmoderno, partendo da una maniera, in vezzo di stile, una firma, costruiscano un vero e proprio sottogenere, il documentario alla Moore, il pulp movie alla Tarantino, l’almodrama, per poi rielaborarlo sotto sotto, e intenderne meglio loro stessi la pluralità significante). Soprattutto in un documentario serrato divertente, i registi Achbar e Abbott a volte credono troppo nelle loro immagini e nella loro letteralità (momenti infatti in cui il film cala), tradendo le loro stesse premesse teoriche, arrivando ad una demistificazione un po’ troppo semplice da reportage televisivo, stavolta non trasfigurato in cinema. Resta comunque che Moore ha filiato (se ne sono accorti a Cannes, termometro fedele di umori cinefili, più degli altri grandi festival, come ai tempi di Velluto blu e Pulp Fiction) e che il documentario come qui abbiamo trattato non ci parla di un rapporto più trasparente con la realtà, ma prima di tutto di una serrata riflessione dell’ immagine su se stessa, unico modo per rendere poi il proprio contenuto manifesto e interagire con la realtà sociale.

di Francesco Rosetti