Dimentichiamo per un momento i consueti requiem esistenziali ai quali ci ha sottoposto uno degli autori più interessanti e apprezzati degli utlimi anni e torniamo indietro nel tempo a quando Takeshi Kitano, abbandonato il mondo della televisione, realizzava un’opera curiosa e semi autobiografiica come Kids Return. A questo aggiungiamo alcune scelte coreografiche che aveveno fatto di Zatoichi una pellicola importante per la filmografia del cineasta dal Sol Levante e otteremo un miscela esplosiva indirizzata da un lato alla commedia grottesca (con debiti di riconoscenza nei confronti del teatro dell’assurdo fino al paradosso macabro di Aki Kaurismaki) e dall’altro ad un’accusa esplicita verso un certo tipo di sistema preconfezionato. In fondo la vicenda si articola su un incontro fra il celebre Kitano, etichettato e riconosciuto da tutti sullo schermo come spietato yakuza, e “Beat Takeshi” un goffo e simpatico alter ego in cerca di una particina da interpretare e, su un piano universale, di un’identità. Fra siparietti da spettacolo di marionette e colpi proibiti di arma da fuoco, il racconto scivola attraverso situazioni differenti con incursioni nel mondo dell’arte e della finzione, come se tutto fosse frutto di un sogno.

In effetti a guardarlo bene questo Takeshi’s, superato il fastidio iniziale dovuto ad una serie di gag esageratamente ripetitive, ha tutta l’aria di essere attraversato da una dimensione profondamente onirica; dichiara il regista che ad esempio il soldato americano delle prime scene rievoca un incubo avuto dallo stesso quando era più piccolo. Sull’uso della violenza poi, qui smaccatamente ridicola e strampalata (quasi “slapstick”) egli si è espresso in termini precisi denunciando una certa diversità fra il proprio modo di proporre scene di notevole impatto emozionale, magari servita da mirabolanti sparatorie con pistole e fucili (morte diretta e fulminante) da coloro che invece, ricorrendo sempre a duelli con pugnali e lame (lunga e atroce sofferenza prima di esalare l’ultimo respiro), ne fanno un marchio di fabbrica. Con questa affermazione l’autore decide di indirizzare il suo cinema futuro verso orizzonti inesplorati, lontano dall’epica criminosa alla quale ci aveva abituato. Il punto fondamentale è però un altro: bisogna prendere atto di una scelta così coraggiosa e avallare questo capitolo come uno degli esperimenti arditi e criptici in cerca di chissà quale significato recondito, o ammettere che alla fine anche i grandi possono sbagliare? La risposta al pubblico con l’uscita nelle sale.

di Ilario Pieri