America 1929, la Grande Depressione come una marea di sventura spazzava via i sogni di milioni di Americani così facilmente come se li erano visti in parte realizzare dal paese delle opportunità. Nello stesso luogo in cui un piccolo riparatore di mezzi meccanici aveva fondato la più grande concessionaria automobilistica del centro America, oltre 15 milioni di persone perdevano tutte le loro certezze. In questo terreno di sventura, dove i mezzi di comunicazione di massa tentavano di portare comunione e speranza, diventavano loro stessi anche veicoli di sogni: trovavano facilmente posto miti e leggende popolari, spesso di natura sportiva, cui aggrapparsi per non cadere ancora più giù. Il giorno in cui tre figure decisero di unire le loro vite corrotte e consumate per un sogno, lì nasceva il mito di Seabiscuit, il cavallo piccolo e poco robusto, ma ribelle e dall’incontenibile impeto, e il pregio di chi lo ha avuto è stato solo quello di non contenerlo, di non reprimerlo. È proprio il tempo, non quello del titolo, ma quello della narrazione, la vera forza di un regista come Gary Ross, capace di comprimerlo descrivendo in un istante un passaggio, un cambiamento sociale, oppure di dilatarlo, espandendo quegli istanti di avvicinamento alla linea di arrivo di una corsa, ultimi spasmi di sofferenza e volontà, di consapevolezza e incredulità. Red Pollard (Maguire) vive una situazione di simbiosi con il suo cavallo delle meraviglie, una unione che ha una sua precisa evoluzione un po’ favolistica ma che piace. Elargendo inquadrature in una sontuosità registica piuttosto ostentata ma che non infastidisce, Ross traspone per il grande schermo il bestseller di Laura Hillenbrand approfittando di tutta quella ricchezza produttiva a sua disposizione senza lasciare nulla di inutilizzato. Il substrato politico, inevitabile al fine del film, si percepisce come una sentita autostima nei confronti del sistema americano: del resto il Presidente della Biblioteca di Los Angeles, scrittore di tanti discorsi per personaggi come Bill Clinton e delegato della Democratic National Convention, non poteva esimersi da un’opera di tale passione evocativa. Nessuno più di lui poteva fare il quadro di un periodo della storia americana in cui gli unici cenni di vitalità provenivano da simboli spesso sportivi, che dal nulla avevano saputo creare la loro fortuna. Ross è un abile amplificatore di sensazioni; il tempo è soggiogato, illuso da momenti a volte repentini, a volte dilatati. I personaggi sono tutti egregiamenti interpretati ma la più credibile è sicuramente Elizabeth Banks perfettamente entrata nella parte della moglie del magnate Charles Howard, raffinata e appassionata. Testimone della corsa delle telecomunicazioni e simpatica macchietta, il giornalista sportivo Tick Tock McGlaughlin, diverte nelle sue veloci apparizioni. Maguire si ripete nell’interpretazione di un ragazzo dalle umili origini e dal grande cuore, che d’un tratto si trova davanti qualcosa di meraviglioso, quasi soprannaturale. Durante la sua prima corsa in sella a Seabiscuit sentendo il suo urlo liberatorio, non possiamo non ricordare l’urlo di Peter Parker quando scopre di potersi arrampicare sui muri. Seabiscuit è un film astuto, ‘raccomandato’, che sa quali corde andare a toccare e che le tocca arditamente. È una bella donna che mostra continuamente tutta la sua bellezza e la sua sontuosità, e noi non possiamo far altro che stare a guardare dall’inizio alla fine: se volessimo dare un giudizio, dovremmo aspettare volentieri, rapiti, l’ultimo fotogramma.

di Alessio Sperati