Un Richard Gere dimesso, confuso e invecchiato, in un ruolo dove a emozionare stavolta non è il suo solito aspetto affascinante ma le lacrime, la solitudine, il fallimento. Il regista Oren Moverman lo ha filmato di nascosto mentre si aggira solo e disperato tra le vie di New York, negli inusuali, logori panni di un senzatetto, in cerca di un riparo, di un giaciglio, di calore umano. E la gente che gli passava davanti non l’ha mai riconosciuto.

Così lo vediamo per circa due ore in Time Out of Mind (scritto da Moverman, interpretato e prodotto dall’attore), un film che silenziosamente ma con forza si insinua nella mente, cercando di far capire cosa possano provare quelle anime perse che incrociamo per strada e distrattamente scansiamo, quasi a temere di venir contagiati dalla loro disperazione. Dialoghi volutamente e giustamente quasi assenti, pochissime informazioni sul perché il protagonista si sia ridotto sul lastrico. Per mettere meglio a fuoco le sensazioni che gli scorrono dentro, il desiderio di appartenere a qualcosa, a qualcuno di cui fidarsi, di trovare il proprio posto nel mondo. E’ questo lo scopo del film.

“Ho ricevuto la sceneggiatura dieci anni fa e non l’ho più dimenticata – spiega l’attore, affascinante come sempre, presentando il film al Festival di Roma -. Da tempo volevo farne un film, ne ho parlato col regista, ci si è buttato a capofitto, con la mia stessa lunghezza d’onda. Solo tre settimane di riprese, pochi milioni di dollari, io ripreso col teleobiettivo e con macchine da presa nascoste mentre vagavo per le vie del centro cittadino con l’aspetto del barbone, nessuno mi ha notato”. Non era importante raccontare la storia del protagonista perché, spiega Gere “se guardi attentamente una persona puoi capire chi hai di fronte, non perché sai le cose. Si deve viere il momento attenti, pronti, concentrati, per questo abbiamo scardinato dal film il suo passato. La vita riempiva l’inquadratura per creare una corrispondenza tra ciò che vedi e ciò che senti, senza trucchi di ripresa o di musica”.

Per prepararsi ha visitato tanti centri di accoglienza, strade e giacigli degli homeless. “E’ stata un’esperienza incredibile – racconta -, mi sono calato pienamente nella realtà degli ‘invisibili’, irradiati dal fallimento e per questo respinti dalla gente”. Non ha provato imbarazzo nel chiedere l’elemosina: “La mia religione buddista tibetana prevede che si tenda la mano per chiedere qualcosa, non per mangiare, ma per offrire a qualcuno la possibilità di fare un’offerta, creando una situazione di merito positiva. Io comunque lo facevo da attore, un’esperienza molto diversa”.

Solo due neri l’hanno riconosciuto, racconta, salutato con noncuranza e tirato dritto. “I neri a New York sono più attenti dei bianchi a quello che accade loro intorno– spiega -, ormai la gente è isolata dal mondo dai cellulari. In città ci sono oggi 60 mila senza casa, 20 mila sono bambini, per legge dagli anni ’90 hanno diritto a un letto e a due pasti al giorno, credo sia l’unica città degli Stati Uniti dove accade. Vorrei contattare le ONG (organizzazioni non governative) per avere dati sulle realtà di altre parti del mondo”. Tanto impegno nel sociale ma, inaspettatamente, quando gli viene chiesto cosa pensa del Papa taglia corto: “Non sono cattolico, non saprei”. E da lui, che in passato ci ha intrattenuti a lungo sui problemi religiosi e politici del Tibet, questa astensione alla domanda proprio non ce la saremmo aspettata.