A volte non basta un Premio Pulitzer (ottenuto nel 1996) per decretare un successo cinematografico. O per essere più chiari non è stato assolutamente sufficiente per fare in modo che la trasposizione sul grande schermo di un cult di Broadway come Rent, potesse risultare efficace o quantomeno innovativa. Probabilmente affidare il progetto a Chris Columbus, “padre” cinematografico di Harry Potter, non ha giovato al ritmo impartito allo spettacolo, relegando lo spettatore a due ore e quindici minuti di sonnolente apatia in cui il tempo sembra rallentare pericolosamente fino a giungere all’immobilità assoluta. Nonostante si sia evitato lo scempio di doppiare le canzoni, lasciandole nella loro originalità linguistica (sono rigorosamente sottotitolate), le vicende di questi “invisibili” newyorkesi, di questi ultimi reietti della società della “grande mela” narrate da Jonathan Larson (la sua ispirazione nasce dalla Boheme di Puccini), risultano oggi, a dieci anni di distanza dal debutto, assolutamente anacronistiche e prive di quell’accezione “rivoluzionaria” con il quale il musical era stato presentato. Chris Columbus sembra essere stato coinvolto in un progetto complesso, di fronte al quale ha dimostrato di non avere gli strumenti adatti per una giusta e personale gestione della materia.

Se pensiamo ai musical di grande successo che in questi ultimi anni hanno popolato gli schermi cinematografici, la mente ci riporta quasi automaticamente a degli spettacoli visivi a cui è stato affidato il compito di provare, tentare strade interpretative e narrative del tutto insolite e nuove, conducendo il più classico dei generi su percorsi ancora non battuti ma non per questo inadatti. Dalle personali visioni di Baz Luhrmann con Moulin Rouge, alla rivisitazione ironica ed acuta di Rob Marshall con Chicago, l’imperativo è stato tentare coraggiosamente, cercando di dare nuova linfa vitale ad un genere decisamente in disuso. Eppure, nonostante questi predecessori, con Rent si cade nuovamente nella staticità di uno spettacolo visto fino all’inverosimile, incapace di narrare qualche cosa di nuovo. Dai colori, alle scelte sceniche, al cast, per finire con una musica che è poco presente e soprattutto poco coinvolgente, la regia di Columbus accetta di non correre rischi riproducendo fedelmente l’originale apparso a Broadway nel 1996. Il risultato è quello di un film che, nonostante il messaggio d’amore, di convivenza e pacifico aiuto trasmesso dai reietti in cerca tutti di una vita d’arte, affidatosi ancora ad un’ondata rivoluzionaria sessual-amorosa passata e placatasi oramai da molto, rischia di essere drammaticamente datato. A questo punto, se si vuol assistere ad una nuova, esilarante e coraggiosa interpretazione del musical, non rimane che attendere l’uscita dello “sboccato”, proletario ed assolutamente travolgente “Romance & Cigarettes” di John Turturro.

di Tiziana Morganti