Scrivere la propria storia come un diario e farsela leggere, tanto tempo dopo, come la storia di un altro. Trepidando e sperando e aspettando perché la storia è d’amore e di quell’ amore travagliato e trionfante le cui storie non hanno tempo. Se, poi, chi legge è l’uomo che, per una vita intera e sino allo stremo, ha amato la donna che ascolta, potrebbe anche succedere ciò che i medici dicono impossibile: che nel buio della memoria perduta (sbriciolata dall’Alzheimer) risplenda una piega di luce. Per poco, certo, ma in quel barlume l’uomo ritrova quel contatto atteso da anni e, lui sì, può ricordarlo per il tempo a venire. Sembra una cornice ma lo è solo in apparenza in questo Le pagine della nostra vita in cui Cassavetes Junior, Nick, si mostra come mai prima, baldanzosamente (quasi impudicamente) l’opposto del grande padre John sempre combattente contro qualcosa, mai omologante, appassionamente trasgressivo, almeno tanto quanto il figlio qui anela all’antico e all’affettuosamente prevedibile, alla tradizione di genere e all’immediatamente riconoscibile. E, con questi intenti, ritorna (dopo Una donna molto speciale del ’96) a lavorare con la madre, la sempre grande e qui sperduta e dolente, Gena Rowlands, affiancata qui da un altro veterano, James Garner struggente nella sua capacità di sperare oltre ogni speranza, e dalla coppia di giovani, Ryan Gosling e Rachel McAdams, che sono il loro specchio passato, oltre che da Sam Shepard qui perfetto nei panni di un uomo del Sud nella Carolina degli anni Quaranta. La cornice è, in realtà, la storia stessa e, semmai, è ciò che avviene nel mezzo, la vicenda di amore fulminante e di gioventù che si srotola al centro del film, a mostrarsi funzionale a quella storia di partenza e di chiusura.

Soprattutto, all’idea, già tra le pagine dell’omonimo romanzo di Nicholas Sparks, che è la genesi del film: la ricerca del senso dell’amore oltre limiti ed età e la ricerca di una storia che almeno per uno dei protagonisti esiste perché è scritta su qualche foglio. Ma potrebbe essere diversamente. Così come tutta la storia dei due protagonisti sarebbe potuta andare diversamente se, come sembra nella prima parte del film, i due si fossero rassegnati alle imposizioni sociali, che li volevano lontani, e agli imperativi morali, che li volevano non innamorati. Cassavetes gioca molto su queste allusioni, su queste aperture ma dentro una storia ipertradizionale, solidamente vecchio stile, eppure con un sottotesto sentimentale sinceramente sentito. Cosa rara che stupisce in parte ma aiuta il film a non sprofondare del tutto nell’oceano mieloso che lo sfiora e spesso lo ricopre e riesce a darci molto di più del prevedibile melodramma che si consuma tra madri perfide e ciniche, ragazze di buona famiglia “troppo irruenti”, operai troppo saggi e appassionati e panorami umani e sociali di un’America in qualche modo ancora bambina, di un paese che non c’è più. Ma il “grazie” più forte deve andare agli attori: senza di loro nessuna buona volontà e nessuna sincera voglia di tenerezza avrebbe retto il peso di una storia tradotta piuttosto fedelmente da un libro che nulla concede oltre la collaudata mescolanza di tutti, ma proprio tutti, gli ingredienti del romanticismo retrò. E, in fondo, anche il non troppo coraggioso Nick (anche se i suoi anziani protagonisti danno comunque corpo a un cinema non certo sulla stessa lunghezza d’onda dell’odierno pervasivo giovanilismo) insiste proprio su quegli ingredienti. Senza una variazione, una sfumatura che suggerisca un altro colore, una spezia, un azzardo. Nulla.

di Silvia Di Paola