Una giovane solitaria e misteriosa operaia che non comunica col mondo. È sorda, e per isolarsi al massimo spegne l’apparecchio acustico che la mette in contatto con gli altri. E gli altri per tutta risposta la rifiutano. Lascia la fabbrica e va a fare l’infermiera su una piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano dove lavorano solo uomini. Uno di loro per salvare un collega da un incendio si è gravemente ustionato diventando temporaneamente cieco e lei deve lavarlo, imboccarlo, medicargli le piaghe dolenti. Lo fa con dovizia e competenza ritraendosi però all’invadenza di lui che vuol forzare i suoi silenzi, e forse sopire gli acuti dolori tra fiumi di parole, battute sarcastiche, tentando di far sciogliere in una risata le ombre che l’attanagliano. Tra silenzi e cinismo nascerà un rapporto denso di segreti, bugie e verità, che mostrerà loro l’altra faccia della realtà in cui sono immersi. È la storia dura e tenerissima raccontata nel film La vita segreta delle parole, scritto e diretto dalla regista spagnola Isabel Coixet nel 2003, un cast strepitoso con Tim Robbins, Sarah Polley, Javier Càmara, Julie Christie, e finalmente approdato nelle nostre sale distribuito dalla Bim.

Un film sul peso del passato, sulle parole perdute che, sottolinea l’autrice di Barcellona, «Vagano in un limbo di silenzio, malintesi, errori, dolore, e poi un giorno sgorgano fuori e niente le può fermare». Hanna (Sarah Polley), vive nel silenzio che sembra sia la sua unica arma di difesa dal mondo. Josef (Tim Robbins) usa invece fiumi di parole, battute, ironia per non impazzire. Il cuoco spagnolo Simon (Javier Camara) che ambisce all’alta cucina e prepara manicaretti che nessuno sembra in grado di apprezzare, è un tenero idealista che aiuterà Hanna ad aprirsi. L’empatia, quella misteriosa capacità di comprendere i problemi dell’altro come fossero i tuoi, abbatterà tutti i muri. L’autrice affronta temi spinosi come lo stupro riuscendo a comunicarne tutto lo strazio e il dolore senza falsi pietismi, senza mai raccontarlo con immagini o parole senzazionali. La tragedia di Hanna si percepisce comunque sin dalle prime scene del film, in un crescendo angoscioso e poetico, a tratti perfino comico, che ti incolla alle vite dei protagonisti, trascinandoti con loro nell’orrido in cui si tuffa il dettagliato racconto liberatorio che riscatta e affranca lei dalla terribile esperienza passata.

«Quando c’era la guerra nei Balcani lavoravo a Milano per la pubblicità. Ero all’aeroporto e vidi un volo per Sarajevo, mi dissi perché non faccio qualcosa?», racconta Isabel Coixet. «Raccolsi informazioni, più materiale possibile e quattro anni fa ne feci un documentario. Ho conosciuto molte donne che hanno passato cose peggiori di quelle che ho raccontato nel film, alcune sopravvivono con allegria, altre sono come morte dentro. L’amore è l’unica cosa che le fa sopravvivere, che le riscatta. Tutti hanno ormai dimenticato quella guerra, ma io non volevo spiegare il perché di quella specifica storia, mi interessava evidenziare il dramma universale di una donna intrappolata in qualcosa che non ha contribuito a creare, che non dipende da lei. Hanna nel film si difende col silenzio, poi è come un fiume in piena che tira fuori dolore, ricordi, sentimenti. Ma il silenzio può essere eloquente come la parola».

di Betty Giuliani