Ispirato al film Rocco e i suoi fratelli e alle atmosfere di Dostoevskij, Sergio Rubini torna non solamente alla regia ma ad una storia che, ancora una volta, lo riconduce lungo le vie dei suoi ricordi giovanili. Ma nonostante queste illustri ed elevate fonti di illuminazione, nulla di troppo complicato e criptico si cela tra le solitarie strade del Salento, spazzate da un vento costante capace di ravvivare un immobile pomeriggio d’estate. Dietro i richiami pirandelliani e verghiani Rubini ha avuto il guizzo di celare, ma non troppo, una storia che si lascia leggere attraverso prospettive del tutto diverse. Un film, che rientrando nella tradizione del cinema di genere, accontenta le aspettative di filosofi, tradizionalisti, amanti del giallo e del puro intrattenimento. Se fosse possibile riassumere in pochi aggettivi un percorso durato un’ora e cinquantadue minuti, si potrebbe considerare La terra come un commedia all’italiana dai risvolti esistenziali e profondamente umani, grazie alla quale possiamo osservare un Sud fatto di luci ed ombre, ma assolutamente vitale. Pur avendo lasciato la Puglia all’età di diciotto anni Sergio Rubini riesce a ricostruire questo luogo della memoria con incredibile realismo, mettendo in luce la forza ancestrale di un paese che riesce a ridere tra le lacrime. Il Sud, o almeno questo ritratto di Sud, non privilegia un solo punto di osservazione.

Non si cade nella trappola dell’omologazione mafiosa, ma si esalta la molteplicità di una umanità varia ed esilarante. L’anima di questo film sono i suoi personaggi, diversi eppure speculari. In un continuo gioco di confronti e di riflessi Luigi (Fabrizio Bentivoglio), Michele (Emilio Solfrizzi), Aldo (Massimo Venturiello) e Mario (Paolo Briguglia) nel contendersi “la roba” (ecco che sembra comparire prepotente la tematica tanto cara al Verga) colgono l’occasione per osservarsi, conoscersi, per poi scoprirsi uniti nella salvaguardia di quel substrato di ricordi, capace di renderli non solo fratelli ma tutti figli della stessa terra. Un pò come ne I Malavoglia “la roba” è fonte di distruzione e divisione, anche se in questo caso l’accezione non è così definitiva. Pur dovendo rinunciare alla terra per lasciare che l’affettività scorra libera, è la terra stessa che, con le lotte ed i contrasti da lei causata, si prende il merito di colmare le distanze createsi tra i quattro protagonisti. Attraverso la roba si racconta una fuga, un ritorno, un riappropriarsi del linguaggio e delle tradizioni, una colpa indelebile ed una salvezza inaspettata. Alle sue spale il Salento, invece, si mostra spontaneo tra i selciati bianchi dei suoi paesi, nella maestosità delle torri aragonesi, nella sua solitudine da “wild west” ed in quel modo tutto italiano di risolvere i problemi. E tra le quotidiane vicissitudini si nasconde perfino un Dio dal quale, forse, non ci si attende più alcun dettame, lasciando l’uomo libero di gestire delitti e castighi.

di Tiziana Morganti