A distanza sono solo una donna, un uomo e un bambino. Insomma una famiglia possibile. Stringendo appena l’obiettivo, diventano una quasi quarantenne che sembra desiderare un figlio, un uomo che è il suo compagno e che è appena perplesso e un bambino che figlio non vuole essere. Zoomando in modo deciso, la donna è una madre ma solo per affido (perché lei un figlio suo non se la sente di averlo), l’uomo un professionista affermato che non condivide poi tanto la scelta, si lacera di gelosia ed è incline alla fuga e il bambino un piccolo disadattato strappato all’incoscienza e alle violenze della madre, cresciuto nei disagi dell’estrema periferia napoletana e ormai dentro una guerra che non può (né sa) smettere di combattere. Insomma l’immagine si sfaccetta, si sminuzza, si complica, si offusca tra madri che commettono un errore dietro l’altro perché guidate solo dal desiderio, padri che sbagliano perché, al contrario, guidati solo dalla razionalità, figli che non ci sono e bambini vittime di una società impazzita. Insomma molto più che una guerra. E proprio perciò il napoletano Antonio Capuano, nel suo La guerra di Mario non avrebbe neppure avuto bisogno di ricordarcelo continuamente, staccando cromaticamente, il piccolo Mario che combatte la sua guerra, reale e immaginaria, con le fughe dalla realtà che sta intorno (cui, tra l’altro, Capuano ci ha già abituato). La sua storia quotidiana era abbastanza. La sua guerra c’era già, senza bisogno delle didascaliche chiose fantasy che contrappuntano questo film generoso ma pasticciato, nato in modo folgorante ma finito in un castello di imperfezioni. Eppure attraversato dalla bruciante avventurosità di una Valeria Golino in versione iperborghese e davvero in stato di grazia.

Una mamma lontanissima dalla sanguigna e indimenticabile donna di Respiro, piuttosto, come lei dice (che un figlio a quaranta anni non ce l’ha ma vorrebbe averlo), «Una non mamma che cerca di esserlo, non di un figlio suo ma di un bambino che prende in affidamento e che, quando per caso arriva, la lascia sgomenta ma felice. Una mamma adottiva che cerca di volere ad ogni costo questo bambino che non capisce perché viene da una realtà troppo diversa dalla sua ma cui vuole adattarsi. Così cede ad ogni sua richiesta, cerca di avvicinarsi, di accondiscendere a quell’universo sottoproletario che non conosce e, naturalmente, sbaglia ogni passo, si avventura su un terreno minato, si butta, dà tutta se stessa e perde». Perché? Forse perché, dice lei, «Questa è una situazione in cui a contare non sono solo sentimenti ma c’è di mezzo tutto un filtro di burocrazia, legato all’affidamento e all’adozione, che altera comunque questo che già vorrebbe essere ma non è un rapporto tra una madre e un figlio, cioè una delle cose più naturali che esistono. La donna che interpreto sbaglia, si perde, ma c’è anche tutto un mondo farraginoso davanti a lei che non è sempre comprensibile». O, forse, perché, come spiega Capuano, «La storia stessa che mi ha ispirato, una storia reale di una persona reale che ho conosciuto bene, finisce col perdersi mentre qui, in fondo, la protagonista una speranza la lascia, a se stessa e a noi spettatori, la speranza di una sua maternità. Ma la storia del film è quella di una guerra di un ragazzino disadattato di cui si innamora una donna, a sua volta animata da un problematico bisogno di maternità». Già una donna cui Mario (Marco Grieco scelto tra 1500 bambini nelle scuole di Napoli), un giorno, finisce col dire: «Tu vuoi imparare a fare la mamma, ma devi imparare ancora un sacco di cose», esemplificando in un lampo quella «Sensibilità rabdomantica che i bambini posseggono e che si appanna man mano che si cresce», quella dolcezza mista a dolore che Capuano ha raccontato sino ad oggi. Insieme a tutto il resto.

di Silvia Di Paola