Bruno allo studio della carta ha dedicato la sua vita sino ad oggi; è salito, nella sua azienda, gradino dopo gradino, sino a trovarsi tra quei pochi eletti iperspecializzati destinati ad essere dei dirigenti; ha adeguato a tutto ciò il suo stile di vita; insomma è a un punto in cui può permettersi di sognare il suo futuro come un proseguimento dell’oggi. Ma che succede se, all’improvviso, la sua azienda, in via di “terziarizzazione”, lo mette gentilmente alla porta? Niente, solo una parentesi prima di trovare un’altra azienda che lo accoglierà a braccia aperte, pensa lui da quarantenne professionista di successo. Però se il tempo passa, la disoccupazione diventa lo spettro del futuro e i curricola ritornano indietro il nostro eroe borghese entra in crisi. Altri, come lui, si riciclano in commessi, persino in camerieri, qualcuno si suicida, qualcuno ce la fa ma i posti adatti a un dirigente con quelle competenze sono pochi, pochissimi, i dirigenti disoccupati una piccola folla e, allora, chi farsi selezionare, escludendo tutti gli altri? È come la corsa all’unico pezzo di carne rimasto nei dintorni, all’ultimo animale vivo che sarà del più veloce dei predatori. E all’uomo primitivo non spetta che combattere la sua battaglia: la tua morte per la mia vita. Non è, forse, questa l’idea motrice al fondo del fondo di ogni società, anche della nostra ipercivilizzata? La risposta di Costa-Gavras sta nel suo ultimo film, Cacciatore di teste, thriller e commedia nera insieme ma, prima di tutto, racconto morale alla maniera in cui lo intendevano Voltaire e Diderot: nel mostrare l’amoralità per suggerirci una morale, l’eccesso per indicarci una medietà.

Qui l’amoralità è incarnata dal nostro Bruno (un perfetto, comico e tragico, Jose Garcia), compito dirigente e affettuoso padre di famiglia che si fa serial killer per la semplice e ovvia ragione che, facendo fuori tutti gli altri concorrenti al posto da lui ambito, alla fine lui non potrà che avere la poltrona agognata, tornare ad essere ciò che era, provvedere di nuovo ai bisogni della famiglia. Come faceva il Monsier Verdoux di Chaplin che, in piena Depressione, per salvare la famiglia dalla povertà, cominciò a derubare e uccidere ricche vedove, sempre “in pace con Dio” (anche se non con gli uomini) , secondo il principio dell’applicazione su minuscola scala di ciò che l’umanità, con le guerre, applica su grande scala. Ma con un aggravante anche rispetto a quell’antenato: perché Bruno non ha neppure quel dubbio. Il dilemma morale per lui, figlio di una società forgiata sui miti del denaro e del successo, non esiste. Uccide poveracci come lui e, sia pur con qualche tremore, sino alla fine, con accanita precisione e senza fermarsi. A fermarlo sarà, semmai, un altro predatore. Che, puntuale, arriverà in questo mondo evoluto nella forma e sempre più involuto, primitivo, nella sostanza. Suggerisce Costa-Gavras: in questo mondo partorito dalla religione dell’individualismo. È parossistico tutto questo? Certo, ma funziona alla maniera dell’amoralità sfacciata dei racconti settecenteschi: negli estremi c’è sempre contenuta una verità. Dalle pagine di un giallo di Donald Westlake, un film sulla follia insita nel più mansueto dei qualunquismi, sulla ferocia acquattata dietro la borghesia più perbenista, un racconto esemplare ritmato senza eccessi e sbavature, solido, brutale, preciso, registicamente lineare. Insomma un Costa-Gavras all’ennesima potenza.

di Silvia Di Paola