«I vincitori non mollano. Se abbandoni non vinci. Questo sono io, questo è il mio paese». Ecco l’America che inneggia al suo inno e che si riveste della bandiera a stelle strisce pur di ricostruire e palesare una granitica intoccabilità sgretolatasi in pochi minuti di fronte alla caduta delle sue torri. Questa è l’America soffocata da ancestrali timori di sconfitta, claustrofobicamente chiusa in se stessa, cieca e sorda ai richiami dell’esterno, l’America sporca e concreta fotografata da Win Wenders. Il regista tedesco presenta in concorso alla sessantunesima edizione del festival di Venezia il suo ultimo lavoro Land of Plenty, offrendo una panoramica straziante e drammaticamente attinente di una terra paralizzata. Annunciato come una esperienza politicamente sconvolgente alla pari di Fahrehneit 9/11, la visione di Wenders commuove e scuote per la profondità e l’universalità del messaggio contenuto. Privo di un attacco rivolto nei confronti di un’unica personalità politica, Land Of Plenty si identifica come una precisa critica nei confronti di quella porzione di società statunitense che, inseguito alla tragedia dell’11 settembre, sembra aver perso completamente la percezione della realtà. Attraverso panoramiche aeree, Wenders scende verso le strade di una Los Angeles lontana anni luce dalle luci sfavillanti di Rodeo Drive e di Hollywood, si insinua tra le vie buie e grigie di sobborghi abbandonati, si mischia tra una folla di ombre multietniche le cui esistenze sono protette dall’oscurità e dall’ignoranza dei molti, per poi affidare alla schizofrenica esaltazione di Paul (John Diehl) ed alla disponibilità umana di Lana (Michelle Williams) il compito di rappresentare i due volti di una stessa realtà. Durante le prime sequenze la città scivola lungo immagini intraviste dal finestrino di due macchine. Momenti e luoghi di vita urbana con i quali i protagonisti si relazionano in modo del tutto diverso. Paul, reduce del Vietman, si aggira per le strade di Los Angeles su di un furgone, stravolto dall’esigenza di proteggere il proprio paese da un probabile attacco delle cellule di Al Qaeda.

Il nemico, quello che colpisce alle spalle, che non lascia possibilità di reazione e controllo, è tornato a minacciare e sconvolgere la sua labile fragilità emotiva. Gli incubi di distruzione e morte che scuotono la sua mente, non rappresentano altro che l’insicurezza in cui gli Stati Uniti sono piombati di nuovo, dopo più di trent’anni, in seguito l’attacco alle torri gemelle. Una esigenza di controllo assoluto e di perfetta gestione del particolare che induce a continue violazioni della privacy, ridicole trasferte all’interno di cassonetti alla ricerca di fondamentali documenti, esami d’innocui campioni d’acqua nel tentativo di sventare attacchi batteriologici. Momenti ed attività di pura ilarità se non avessero una qualche effettiva attinenza con realtà totalmente dimentica dell’effettivo valore e significato del mondo circostanze. Una consapevolezza di cui Wenders veste Lana, non spettatrice, ma protagonista assoluta di un universo che per lei si configura come una terra di scoperta e non di conquista. Vive l’idea ed il sentimento di patria attraverso un saldo legame con le sue origini familiari ma, comunque, mitigato dalla conoscenza di ciò che gravita al di fuori della terra dell’abbonzana. Il suo linguaggio è semplice ed universale, tipico di coloro che sono abituati al confronto senza alcun timore di essere contaminato, l’atteggiamento pacato e paziente di chi non si affanna a stabile confini. Lei è ciò che l’America drovebbe rappresentare. Il paese auspicato e desiderato da Wenders, quello che guarda per osservare e sente per ascoltare, non dimentico della semplicità e dell’immediatezza di una vita all’interno della quale, spesso, gli altri non rappresentano una minaccia ma, semplicemente, un’umanità carica di esperienze e cultura. Lontano dal condurre ad una distruzione totale del sistema statunitense, disinteressato alle problematiche strettamente politiche The Land Of Plenty rivolge la sua attenzione all’incoerenza ed alla mancanza di concretezza di coloro che alimentano l’indignazione e l’odio per la ferita inferta, ben lontani dall’interrogarsi sulle motivazioni di un’odio etnico, spingendoli a rintracciare la speranza per un nuovo inizio tra le parole di una canzone di Leonard Choen: “May the lights in The Land Of Planty shine on the truth some day“.

di Tiziana Morganti