La lotta alle mafie si anche con un film, che può centrare il bersaglio più di tanti teatrini mediatici. Non a caso l’intenso, bellissimo film di Marco Bellocchio, Il Traditore è approdato a Cannes e nelle sale il 23 maggio, ricorrenza della strage di Capaci che privò il mondo e la legge di un magistrato come Giovanni Falcone.
Protagonista un Pierfrancesco Favino perfetto, spietato e umano nei panni del “soldato semplice” Tommaso Buscetta, autore di efferati delitti e trafficante internazionale di eroina per l’incontrastata cosca palermitana, che col suo pentimento ripercorse l’escalation di Cosa Nostra aiutando la giustizia a mettere fuorigioco i capi dei capi degli anni Ottanta e il loro disumano contorno.

Un paio di inquadrature bastano al maestro del cinema piacentino per mettere in mutande e condannare l’ex nostro potentissimo pluripresidente dei ministri, defunto innocente nonostante il fiume di processi. Per mettere al muro più delle avvenute condanne, individui ignoranti, bugiardi, privi di ogni senso morale, uniti dietro le sbarre delle aule bunker dei processi nel rinnegare a gran voce le loro azioni schifose.
Un racconto di violenze e drammi che inizia con l’arresto in Brasile e l’estradizione in Italia del “Boss dei due mondi”, la sua amicizia col giudice Falcone che lo convincerà a testimoniare al maxiprocesso alla mafia. Ma quando sembra che la giustizia abbia segnato un punto, con la bomba di Capaci e malgrado le accuse di Buscetta, Cosa Nostra ricorda al mondo che la sua sconfitta è ben lontana, come purtroppo dimostrano le cronache recenti.

Buscetta, sottolinea Bellocchio nel film, non si sentiva né uno spione, né un traditore, né un infame, proprio perché era rimasto fedele a una società mafiosa che si batteva in difesa dei deboli e che lo aveva tradito. Ce lo mostra nella sua duplice personalità, senza assolverlo o condannarlo, magari calcando un po’ troppo la mano sui risvolti sentimentali delle sue scelte, che lo costrinsero per salvare la pelle a una dolorosa vita da esule, fino alla morte, nel suo letto, come voleva che avvenisse, la sua unica vittoria.

Superate alla grande (grazie anche all’ottima sceneggiatura che l’autore ha firmato con Ludovica Rampoldi, Valia Santella e Francesco Piccolo) le difficoltà di condensare in un film di due ore e mezza decenni di vita e di storia mafiosa. Bellocchio spiega di aver per questo scelto di effettuare riprese frontali estremamente sintetiche, immagini fisse, puntando sui controluce, sui colori caravaggeschi della Sicilia e sulla espressività della cadenza del suo dialetto. Un film imperdibile, aperto, complesso e affascinante come il suo protagonista, che il regista emiliano considera “più avventuroso degli altri” perché vuole esplorare un mondo molto lontano dalle sue origini nordiche e dalla sua autobiografia.