Mistificare le identità, un espediente narrativo che piace sempre a Quentin Tarantino. Lo ripropone anche nel suo ottavo film The Hateful Eight, che Leone Film e Rai Cinema porteranno su oltre 600 schermi dal 4 febbraio. Un western a forti tinte gialle e un po’ di horror, accattivante, mozzafiato, con poca violenza all’inizio ma tutta concentrata nel finale, da vedere assolutamente, al cinema.
Una storia senza un eroe positivo, ambientata pochi anni dopo la Guerra civile americana, con 8 cinici delinquenti relegati in una stanza, che si muovono guardinghi in un’atmosfera cupa, claustrofobica, con qualche lieve sfumatura di speranza.

Tarantino ha puntato su un cast strepitoso, con Samuel L. Jackson e Kurt Russell spietati cacciatori di taglie, Jennifer Jason Leigh la donna catturata, Walter Goggins  un sudista rinnegato sedicente sceriffo, diretti a Red Rock per consegnare i ricercati, vivi e morti e incassare le laute ricompense. Bloccati dalla bufera trovano rifugio nell’emporio di Minnie, la stazione di posta delle diligenze tra i monti del Wyoming. Ad attenderli, in assenza dei conosciuti proprietari, un ignoto gestore messicano (Demian Bichir), il boia di Red Rock (Tim Roth), un silenzioso mandriano (Michael Madsen), un generale confederato in cerca del figlio (Bruce Dern).

Tre ore che scivolano via leggere, assorbiti dallo splendore del paesaggio innevato, dalle suggestive musiche del grande Ennio Morricone, divertiti dalle feroci battute, impegnati a cercare di scoprire quali colpi di scena avrà escogitato stavolta il geniale regista. Gli occhi incollati al supermegaschermo montato nel mitico felliniano Studio5 di Cinecittà, (aperto per alcuni giorni alle proiezioni per il pubblico), necessario per non perdere la magia della pellicola 70mm “resuscitata” da Tarantino che, considerando il digitale adatto solo alle riprese tv, ha girato in Ultra Panavision 70 (con le lenti usate per la corsa delle bighe in Ben Hur), un formato che catapulta lo spettatore dentro la scena, consentendo di cogliere ogni sfumatura del personaggio.

“In tutti i miei film c’è qualcuno che si traveste da qualcun altro. Se ci riesce o meno poi dipende se vive o muore – ammette Tarantino, a Roma per presentare il film con Kurt Russell e Michael Madsen -. Mi piace come aspetto drammatico, e per mettere alla prova i miei ottimi attori”. Spiega perchè stavolta arriva alla violenza più lentamente: “E’ un lavoro di tipo teatrale, non puoi ricorrere ai soliti trucchetti per abbreviare i tempi. Cerco di essere trascinato da un genere ma poi condenso cinque film in uno, come amante del cinema mi piace stare a cavallo di più generi. Stavolta volevo fare un western con un lato giallo alla Agatha Christie, solo alla fine mi sono accorto di averci messo anche l’horror”. Ammette che sia il suo film più politico. “Lo è diventato scrivendo i pensieri dei personaggi – racconta -, il paese diviso dalla guerra civile richiama l’attuale situazione tra democratici e conservatori”.

E’ deluso per la mancata candidatura agli Oscar di Jackson, dalla quale quest’anno sono stati esclusi tutti gli attori di colore, facendo insorgere Hollywood. Come la pensi al riguardo lo fa capire quando fa dire al cacciatore di taglie nero Jackson: “I negri possono stare tranquilli solo quando i bianchi sono disarmati”. Frase che fa anche  pensare alle recenti mortali reazioni di certi poliziotti bianchi su ragazzini negri disarmati.
“I film di Quentin sono un commento alla politica oltre che puro intrattenimento – aggiunge Madsen -. C’è una connessione con ciò che succede nella realtà, se ne parlava sul set”. “Tesse una ragnatela in cui c’è in sintesi l’America – precisa Russell -. Il mio personaggio vuole onorare la pietra miliare del nostro sistema giuridico che offre a tutti la stessa opportunità”.
Nel film, ammette Tarantino “C’è il punto di vista di Sergio Leone”. “E’ un film geniale c’è tanta similitudine coi film di mio padre” concorda Raffaella Leone, che ha voluto portare ad ogni costo il film in Italia. D’accordo Andrea Leone: “Papà ne sarebbe orgoglioso”.