“Cecchini” appostati in sala esclusivamente per disprezzare ed oltraggiare il film in corso ed una stampa insensibile e poco preparata che, non solo non li condanna, ma a loro si mischia nell’espressione di un dissenso evidente. Vista da questa prospettiva la vita dei film italiani durante un Festival come quello di Venezia, innamorato, a loro detta, del cinema americano, è veramente un’avventura la cui meta principale rischia di essere la sopravvivenza. Ma a questo punto, vista tale latente ed ingiustificata ostilità, perché continuare testardamente a partecipare ad una manifestazione che, a quanto mostrano le apparenze, proprio non ne vuol sapere di premiare il cinema italiano? O meglio, perché continuare ad avere la presunzione di presentarsi ad un evento internazionale, che tra l’altro per la stampa italiana costituisce anche un importante banco di prova per il cinema nostrano, con delle opere incapaci di sostenere le annuali aspettative mal riposte? Sono domande che probabilmente non riceveranno mai una risposta onestamente chiarificatrice capace di mettere in mostra le ragioni politiche e commerciali che si sovrappongono all’arte nel momento della selezione, ma che si fanno sempre più pressanti e necessarie di fronte alla visione dell’ultimo film di Roberto Faenza.

Tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, il cui contenuto il regista dichiara di aver completamente dimenticato, la pellicola inanella una serie di occasioni per raccontare una vicenda assolutamente quotidiana e spaventosa per il suo qualunquismo. Con particolare impegno vengono declinati il perfetto cliché dell’uomo traditore ed egoista che abbandona la propria famiglia senza una parola a causa di un vuoto che lo lacera (in realtà si tratta di una donna molto più giovane di lui) e l’immagine di una moglie disperata ed annientata dalla tortura fisica e psicologica procuratagli dalla fine del suo matrimonio. A questo punto è inevitabile la sensazione di trovarsi di fronte ad una copia di un momento assolutamente probabile della vita, solamente peggiorata dal ritmo non sempre continuo e da visioni oniriche dalla discutibile efficacia narrativa ed artistica (il passaggio del cane fantasma sul palcoscenico di un teatro al termine del concerto sembra veramente troppo). E se a Margherita Buy è toccata in sorte la benedizione di rivestire i panni di una donna abbastanza articolata che, comunque, l’attrice riesce ad elevare ulteriormente grazie alle sue capacità, altrettanta fortuna non è spettata a Zingaretti, quasi invisibile ed assolutamente irrilevante. In definitiva qualsiasi donna che abbia superato un momento simile avrebbe potuto consigliare il regista su nuovi e più profondi punti di vista, realizzando un’opera dal gusto umanamente più onesto.

di Tiziana Morganti