Benvenuti a Hollywood. Città dove ognuno può interpretare una parte creandosi una personalità fittizia fatta di successi o fatta di niente. Hollywood, dove il sogno può diventare realtà. Dove tutto è possibile. Proprio come l’improbabile trama di questo pasticciaccio brutto di thriller mascherato da commedia, o viceversa. Si, perché il regista Ron Shelton (che ha fatto di meglio in Dark Blue e un buco nell’acqua sceneggiando Bad Boys 2), nonostante abbia l’occasione di dirigere un mostro sacro come Harrison Ford e il belloccio (un po’ lesso) di Josh Harnett, è molto indeciso se mettere un scena un giallo (i quattro morti ammazzati in music bar sono un incipit invitante) o una commedia degli equivoci che sfocia nel noir dove tutti (e nessuno) hanno un paio di scheletri nell’armadio. La storia è di una prevedibilità incredibile: ci sono i cadaveri, due poliziotti con un sogno nel cassetto (uno, il più anziano vorrebbe sfondare nel mercato immobiliare, l’altro, il più giovane, nel teatro) che danno la caccia ai cattivi (uno però è più cattivo degli altri per un “insospettabile” crimine precedente); l’ufficiale degli affari interni con sentimenti di vendetta nei confronti del poliziotto buono e tante, tantissime figure di contorno, compresa la veggente amante e moglie delusa.

Come dire: tanta carne sulla griglia che non cuoce a puntino. I questo senso ci chiediamo perché tanto sforzo per un film di cui sappiamo la fine fin dall’ inizio? Inoltre fa male vedere Harrison Ford (che pur avendo sessantanni suonati ha ancora il fisico prestante per Indiana Jones) cercare di essere credibile in una trama sciatta e volutamente autolesionista. Che abbia accettato la parte per ragioni alimentari? Non lo crediamo affatto. Crediamo piuttosto che nel giro di tre anni è incappato in due flop magistrali (l’altro era K-19 della Bigelow), i quali certamente non appanneranno la sua fama stellare, quanto potrebbero essere un sintomo ad una imprevedibile stanchezza artistica. Josh Arnett, da parte sua, ce la mette tutta per rivelarsi simpatico con quel suo essere ‘Zen’ a tutti i costi (la scena dell’interrogatorio, seppur pigiata sull’acceleratore, lascia un po’ freddini), ma resta ingabbiato in un personaggio senza spessore. Nel marasma del gioco delle parti (in fondo gli attori fanno quello che gli viene richiesto) l’episodio del produttore (Martin Landau, sempre magistrale) che cerca di vendere la sua magione al nero proprietario di night club (Julius Armas), è probabilmente la migliore di tutto il film, forse perché il ritmo (e le battute) da commedia brillante, lì almeno, colpiscono nel segno.

di Roberto Leggio