Ci sono film di cui sarebbe meglio non parlare, sperando in una dignitosa dissolvenza nel nulla. Hannibal Lecter – L’origine del malerientra in questa categoria e non esclusivamente per l’inno alla violenza gratuita che rappresenta. A diciassette anni dal successo assolutamente meritato di Il silenzio degli innocenti (1990), capace di unire alla suspense del thriller psicologico un sottofondo di terrore più sanguinolento, Aurelio e Luigi De Laurentis tentano il colpaccio rilanciando il prequel della saga del Dott. Hannibal Lecter. La base dalla quale partire è ancora una volta un romanzo di Thomas Harris, ma la regia finale incapace di sostenere il confronto con il capitolo precedente è di Peter Webber. Chiunque abbia amato le atmosfere ambigue e sospese create da Jonathan Demme attraverso la coppia Anthony Hopkins e Judie Fosternon potrà che rimanere deluso da un film che, relegando in terzo piano le vicissitudini psicologiche di un trauma infantile, immola l’intero percorso ad una mattanza senza fine priva di motivazione plausibile. Imbracciando un’ antica spada giapponese o qualsiasi strumento tagliente a sua disposizione, il giovane Hannibal ( interpretato da Gaspard Webber per l’occasione dotato di perenne espressione da serial killer) percorre gran parte dell’Europa per vendicare la morte della sorella più piccola avvenuta durante la seconda guerra mondiale.

Dopo aver ricordato con chiarezza i volti dei suoi assassini, li stanerà meditando morti sempre più terrificanti al limite della sopportazione visiva. Ed è così che, dopo aver ucciso il primo aguzzino, deciderà di banchettare con le sue guance arrostite in salsa di funghi raccolti nel bosco circostante. Tra situazioni assurde, una previdibilità sconcertante, una mancanza totale di pathos ed un involontario umorismo, Hannibal Lecter – le origini del male rischia di essere ricordato esclusivamente come un film inutile dal pericoloso messaggio. In questi giorni particolari dove si viene uccisi anche solo per l’abbaiare dei propri cani, non si sentiva proprio la mancanza di un film che inneggiasse alla violenza con tanto fervore e sostenesse il principio della vendetta fregandosene altamente dell’ elemento giustizia. Un’atmosfera scura ( sembra di trovarsi nel classico film tedesco anni ottanta), la superficialità di personaggi appena abbozzati ed un percorso psicologico esibito solo come specchietto per le allodole, sono gli unici elementi “pregevoli” di questo film. Di fronte all’ennesimo spargimento di sangue ( saranno cinque per la precisione) che mette in evidenza l’inutilità di dialoghi e costruzioni narrative labili ed inefficaci, si sente una fitta di nostalgia cinematografica per l’interpretazione di Sir Hopkins e per una storia capace di segnare un’epoca attraverso la mediazione dell’immagine e dell’immaginazione. Se Il silenzio degli innocenti lascia nello spettatore una sottile e persistente inquietudine, il suo prequel, superata la momentanea repulsione, non offre che una noia inevitabile. Non c’è un solo momento in cui l’azione è in grado di sorprendere, Anche la violenza è così preannunciata che si può scegliere di distogliere lo sguardo in leggero anticipo sulle immagini. Ecco il pregio più importante.

di Tiziana Morganti