A volte può accadere che le intenzioni iniziali di un progetto artistico siano migliori della realizzazione finale. Questo è il caso di Fuoco su di me, secondo lungometraggio di Lamberto Lambertini che, nonostante la presenza di indiscussi talenti attoriali come Omar Sharif e Maurizio Donadoni, il cui compito è stato un pò quello di condurre un giovane e spaesato Massimiliano Varese nei meandri di una recitazione più complessa, non riesce comunque a raggiungere livelli emozionali, perdendosi all’interno di un manierismo troppo accentuato. Pur ambientando le vicende napoletane durante il breve regno di Gioacchino Murat, volontà di Lambertini è stata quella di creare un ponte di ideali perduti e riflessioni romantiche tra le generazioni del passato e quelle attuali. Un legame, tra l’altro, facilmente rintracciabile nella ben nota teoria di Gianbattista Vico sui corsi e ricorsi storici. Detto questo ciò che manca realmente al film è proprio il ritmo, il colore e la forte, disperata vitalità di una citta unica nel suo genere come Napoli. Una mancanza ancora più incomprensibile se si pensa alle chiare origini partenopee del regista ed al suo background artistico che più volte lo ha portato a parlare della cultura napoletana con successo ed entusiasmo (nel 1982 fonda una compagnia teatrale con Peppe e Concetta Barra, portando la Napoli colta e popolare in tutta Italia fino a New York e Bombay).

Nonostante i ricordi di una prima infanzia trascorsa tra i vicoli ad ascoltare e nutrirsi delle tradizioni popolari, Lamberto Lambertini non è riuscito a creare una ribalta cinematografica adeguata alla loro antica bellezza. Soffocata dai pesanti drappeggi degli interni, dalle speculazioni forse troppo filosofiche del giovane Eugenio e dalla nuova tecnologia che va ad agire rendendo artificiale anche il più naturale degli sfondi e degli orizzonti, il seducente profilo di Napoli che incantò lo stesso Murat si riduce ad un superficiale e frettoloso accenno che illude e disillude allo stesso tempo per il suo veloce svanire. Unico impatto emozionale e magico è l’approdo e la scoperta di una Procida selvaggia ed incantatrice dove palpabile è l’incanto che scaturisce da due occhi zingari e profondi e dalla benefica magia del corallo. Onestamente poco per un film che subisce l’influsso non sempre positivo di una evidente dilatazione temporale, causa una regia troppo teatrale e macchinosa e che acquista un accezione puramente didattica.

di Tiziana Morganti