Certo la teoria ed il principio stesso di suspence non l’inventò Hitchcock, ma fu comunque lui l’autore, il maestro che non solo seppe utilizzarla a pieno per le sue opere, ma riuscì a farne il principio portante, il linguaggio costante e partecipe di un intero film. Dall’osservazione dei suoi film, dalle sue testimonianze del set se ne deducono delle vere e proprie lezioni sulla natura di quella febbrile attesa capace di tenere in tensione lo spettatore per l’intera durata di una vicenda e sulla sua applicazione. Insegnamenti che, evidentemente, il regista Dominik Moll ha deciso di ignorare o di lasciarsi alle spalle per seguire una propria strada che pare non portarlo decisamente lontano. Il suo Due volte lei, pur fondando l’intera vicenda su caretteristiche misteriose e quasi sovrannaturali, abbandona lo spettatore, o forse sarebbe meglio dire che è lo spettatore ad abbandonare il film, ad una noia mortale che nasce dall’incomprensione della vicenda stessa ma, soprattutto, dalla totale mancanza di qualsiasi suspance. E dire che gli elementi per un buon film in stile Hitchcock c’erano tutti. Da due protagoniste come Charlotte Ramplig e Charlotte Gainsburg, che il maestro della paura avrebbe particolarmente amato proprio per la loro fisicità così “gelida” e non esuberante, fino alla presenza di un elemento misterioso ed imponderabile come il Lemming (un roditore che vive solo in zone molto fredde e che sembra affetto da inspiegabili intenzioni suicide) ed alla inquietante sovrapposizione di due anime (una delle quali è evidentemente trapassata) il cui unico scopo sembra essere la vendetta.

Con un simile materiale per un thriller tra le mani un regista come Hitchcock ne avrebbe fatto un percorso memorabile e dalla angosciante attrattiva e non un film che, dopo la prima mezz’ora, perda totalmente di qualsiasi interesse e stimolo narrativo. Se Hitchcock amava concedere pochi ma essenziali elementi narrativi per permettere allo spettatore di entrare nel meccanismo dell’attesa e dell’ansia, Moll sembra commettere esattamente l’errore contrario. Fornisce un numero troppo alto di indizi, il cui destino, tra l’altro, è quello di apparire improvvisamente ed altrettanto repentinamente come lasciati in disparte, quasi sospesi in un nulla narrativo, per essere incomprensibilmente riafferrati alla fine. Il risultato è una tale sovrapposizione di spunti di fronte ai quali lo spettatore non può che cadere attonito e confuso, reclamando se non proprio il ritorno della cara vecchia suspence, almeno una chiarezza stilistica e narrativa da parte dello stesso regista. Stanchi ed esausti si guinge alla fine di una vicenda che non si è riusciti a comprendere completamente, portando con sé il dubbio che lo stesso Moll non abbia avuto le idee molto chiare.

di Tiziana Morganti