Per definire una figura come quella della Carmen non è certo adatta la nozione di personaggio, inteso come carattere, psicologia, visto che ci troviamo piuttosto di fronte ad un ‘topos’ di rara forza archetipica. Ma forse nemmeno le nozioni di tipo o mito rendono giustizia alla reale funzione concettuale della sigaraia gitana. Il primo termine rimanda troppo alla temperie culturale in cui è nato il personaggio di Merimèe e Bizet (l’Ottocento post-romantico e tutto il suo corteo sulfureo di donne perdute, sensuali quindi malefiche, trait d’ union tra lo sguardo maschile e uno stato di natura misterioso e pericolosissimo). Troppo astorico e generico risulta invece il secondo per indicare con precisione le peculiarità che un simile modello del femminino porta in sé e soprattutto ciò che lo renderebbe ancora interessante per le letture cinematografiche (insieme a decine di donne fatali dal decadentismo in poi, da Lulù alle “dark ladies”). Se consideriamo il topos Carmen-donna fatale nella sua fisicità, ad un tempo sensuale ed estranea, allora potrebbe venirci in aiuto la nozione di personaggio concettuale di Deleuze. In simili personaggi femminili ciò che conta è il corporeo, non la bellezza plastica, bensì la corrente pulsionale che scorre sottopelle e diventa dispositivo filosofico e di ricerca.

Dunque ci troviamo di fronte a una figura retorica ineliminabile nelle strategie rappresentative della condizione umana, come la maschera e il labirinto. In questa accezione figurale la sigaraia spagnola accede ad un suo valore di segno universale e potenzialmente infinito e la sua esistenza, non potendo essere conosciuta in pieno dallo sguardo maschile, acquista una dose di ineffabilità, che naturalmente affascina e respinge. Il genere che può contenere e sviluppare appieno tutta questa potenzialità riflessiva sulla visceralità e sulla fisicità, ovviamente il melò, discendente anche nell’etimologia del nome del melodramma operistico (Bizet) e del gemello narrativo di quest’ultimo, la novella di ambito simbolistico-decandente (Merimèe). Eccoci dunque alla tensione dialettica tra fisicità ed iconicità del mezzo cinematografico e a questa versione di Vicente Aranda del mito, che proprio su questo versante concettuale fallisce abbastanza nettamente. Sarebbero serviti Bunuel, Sirk, Fassbinder o l’Hitchcock più morboso per rendere l’erotismo in tutta la sua plurivocità e le sue sfumature inquietanti. Invece Aranda, appassionato di figure femminili estreme (usiamo la semplificazione da rotocalco), gioca con lo stereotipo del femminino, gli regala l’eleganza figurativa, ma scende dal sensuale al sensoriale, ovvero carni palpitanti e levigate in effetto calendario plastico, luminoso ed epidermico.

Se il problema è quello del melodramma e delle sue forme, del continuo gioco con codici e stereotipi tenendo conto di una ferrea grammatica dei sentimenti, allora Aranda non riesce a giocare e si fida troppo del genere. Non c’era il bisogno di violentare il genere, destrutturarlo radicalmente, né di ricostruirlo filologicamente cercandone in maniera ossessiva le fonti, ma un certo lavoro sul suo funzionamento lo si doveva fare. Nel cinema contemporaneo il melò funziona quando il massimo dell’immedesimazione coincide col massimo dello straniamento e il ‘pathos’ non ottunde il senso critico, anzi lo attiva. Due esempi ottimi sono Far From Heaven e Parla con lei, pellicole in cui, sulla scia di Fassbinder, innesti tematici inusitati ed anacronistici (omosessualità, razzismo, travestitismo) in una struttura narrativa ed iconografica apparentemente convenzionale, rendono evidenti sia i referenti erotici inconsci, sia le censure ideologiche (e la sottile analisi) dei modelli originali. Insomma si lavora sul piano ideologico e linguistico dell’imagerie, ma davanti agli occhi dello spettatore, c’è il trucco e c’è l’inganno, scoprite dove. Aranda sceglie invece una narrazione tradizionale, con cornice d’epoca e costumi fastosi e ci da dentro con tutto l’armamentario da Spagna caratteristica, vale a dire nacchere, chitarre, rasi, archibugi, banditi, serramanico, corride, sangre y arena. In più carica la messa in scena di eleganze visive da “tableaux vivant” e decorazione, tra altari barocchi alla Narciso Tomè e Churriguera e fratacchioni domenicani usciti direttamente da Zurbaran.

Si perde la voglia di giocare nell’ossequio alla megaproduzione? Forse sì, ma il problema è più di ordine estetico. Sembra che Aranda pensi che basti innestare temi personali in un plot, perché il simbolismo funzioni da solo e il film sia discorso. Ma usare l’esotismo e il luogo comune in maniera seriosa e sottolineata porta all’effetto pompier, ad un film tradizionale (quasi una grande fiction televisiva), con scene pruriginose ed effettate come nel prime time non se ne vedrebbero mai. Fare dell’ esotico antropologia visiva, pura icona è difficile ed è riuscito solo a pochi eletti (von Sternberg, Curtiz, David Lean), così come fare dell’erotico, visceralità dell’incoscio (a tutt’oggi ci riesce Almodovar). E qui non siamo mai al giusto equilibrio tra emotività indotta con calcolo nello spettatore e distacco ironistico della visione; quando ci si immedesima, si ha la sensazione del ridicolo, quando si guarda al meccanismo, si rimane freddi e distaccati. Né bastano gli accenni al feticismo delle scarpe, al demonismo come alla mistica, alla necrofilia ostentata, insomma alla perversione. Il tutto infastidisce come sottolineatura inutile e il sesso mostrato e asserito è allegorismo elegante e pruriginoso, non abissale intensità visionaria. Per credere ad un melò così tradizionale nelle forme ci vorrebbe una ingenuità di sguardo non più possibile oggi (così come Montale affermava si potesse credere all’opera solo con l’orecchio per un certo linguaggio, fatto di alma, vetusto, va’ pensiero sull’ali dorate, di quella pira l’orrendo foco ecc). In più un ultimo errore. Se Carmen è un mito, un’ossessione amorosa di Josè (Leonardo Sbaraglia), deve limitarsi ad essere corpo, esistere, senza nessuna costruzione caratteriale dietro di sé. Qui il corpo di Paz Vega (bellezza con il sesso dipinto in faccia, come avrebbe detto Hitchcock) è bello, sensuale, animalesco e altri aggettivi morbosetti, ma ha uno sguardo e un carattere, quindi paradossalmente perde in evocatività, non ha profondità prospettica. E il tutto sprofonda nell’illustrativo pretenzioso.

di Francesco Rosetti