È piacevole scoprire come vecchi e nuovi autori dimostrino di sondare la storia e importanti temi sociali e politici attraverso la maschera cinematografica dei generi: sorprende riflettere sull’attentato di Monaco degli anni Settanta e vederlo rimontato come un’energica vicenda di spionaggio internazionale con diversi colpi di scena e non pochi spunti etici, come fa ancora più effetto trovare una delle ultime gemme della vasta produzione del tenace scrittore John Le Carrè tradotta in un “crime movie” raffinato. A vestire i panni dei protagonisti Ralph Fiennes molto bravo e all’altezza del ruolo di diplomatico distaccato e indifferente, travolto dalla notizia della morte violenta della moglie e una splendida Rachel Weisz, attivista politica finita nella rete delle case farmaceutiche invischiate in un losco traffico di esperimenti sugli abitanti del continente africano. Il brasiliano Merielles, meritevole del successo ottenuto con la prima fatica City of God (e un trascorso di videoclip) tenta di raccontare attraverso le immagini un dramma capace di muovere le coscienze sociali, senza indugiare troppo su stilemi tipici del cinema impegnato. A cavallo fra il melodramma (l’utilizzo copioso di riprese con macchina a spalla e flashback immersi, come nel romanzo, tra presente e passato) e il documentario, la pellicola riesce a tenere un ritmo elevato, nonostante la maniacale ricerca dell’autore di servire la sequenza perfetta.

La tragedia si consuma in una ragnatela di sospetti: in un primo momento si pensa al delitto passionale come movente del brutale omicidio, in seguito si scopriranno le reali intenzioni di una missione impossibile per sollevare le sorti di un Paese in difficoltà. Come tra le pagine di Le Carrè, gli stati d’animo del personaggio principale, il giardiniere presente nel titolo, si riflettono in uno sguardo stordito e straniato di Fiennes il quale riesce a trasmette lo struggimento di uomo assopito che improvvisamente si sveglia. La presenza di un Danny Huston, ambiguo e meschino quanto basta, delinea lo schema di un intrigo internazionale dove non compaiono né buoni né cattivi. The Constant Gardener gioca tutte le sue carte sul look visivo, considerato il plot originario pressoché impeccabile, così come l’adattamento del bravo Jeffrey Caine. La macchina da presa è molto mobile e l’effetto luce/ombra risulta invitante: se per le scene d’amore infatti il direttore Cèsar Charlone utilizza tinte abbacinanti (il bianco perlopiù) la naturale vegetazione dell’Africa invade lo schermo con i suoi brillanti e variegati colori naturali. Il marrone della terra bruciata, il verde accecante della vegetazione e il sole di un giallo intenso quasi da voler abbagliare la vista. Al solito esportato in Italia con il misero sottotitolo de La cospirazione questo film porta il pubblico a spalancare le palpebre sulle condizioni nelle quali versano ancora i Paesi del Terzo Mondo e anche se l’abito del film tende ad essere elegante da rasentare la perfezione, vale la pena comunque di essere provato.

di Ilario Pieri