Viaggio all’interno del corpo umano o, per essere più precisi, tra le poche ombre e anatomiche evidenze dell’intimità femminile. Immagini così attinenti e tanto scientificamente rilevanti da poter essere attribuite con tranquillità agli ultimi esperimenti televisivi di Piero Angela se non fosse per il cattivo gusto che le caratterizza più di qualsiasi altro presupposto significato culturale e filosofico. Catherine Breillat ed il suo Pornocrazia anelano all’esaltazione della nudità e delle corporeità estranee e nemiche, quella femminile e quella maschile, riunite in assoluta solitudine in un ambiente spoglio e squallidamente trasandato, all’interno di un gioco che più che scoperta sessuale somiglia ad una fredda attività d’indottrinamento certo non aiutata dall’inadeguatezza di Amira Casar ad esporre il proprio corpo e dall’incapacità di Rocco Siffredi a mostrare più di una sola espressione. Ma al di la del presunto scandalo causato da immagini che nulla lasciano all’immaginazione, l’effettivo limite mostrato dalla pellicola della Breillat, tratto dal suo omonimo romanzo, risiede proprio nei rari e stentati dialoghi così infarciti di presupposti di un femminismo dichiarato grazie a dei continui excursus tra le malevolenze e le discriminazioni sociali, civili e religiose che le donne hanno subito attraverso i secoli. Iniziando proprio dal titolo Pornocrazia, che nell’antica Grecia rappresentava l’influenza negativa che presumibilmente le donne esercitavano all’interno della politica, l’andamento filosofico ripercorre tabù più o meno superati, conoscenze sommariamente acquisite dagli uomini sul mondo dei naturali cicli di un corpo femminile non rinunciando mai all’esaltazione del mostrare, del vedere e toccare il tangibile con la vana speranza di sfiorare la vera sconosciuta inconsistenza dell’anima. Mai erotico grazie alla presenza di un Siffredi che vive il sesso e l’orgasmo come un asettico metodo di ricerca ed apprendimento, scarsamente scandaloso grazie a delle immagini così assurde da risuonare come ridicole, Pornocrazia si rivolge con serie difficoltà di attrattiva sia ad un pubblico femminile che ad uno maschile. Nonostante la sua probabile volontà di mostrare alle donne l’effettiva potere della loro corporeità (viene spontaneo chiedersi se esista ancora una adolescente non completamente consapevole della forza emanata dalla sua fisicità e del modo in cui utilizzarla), non corre in aiuto nemmeno di una parte maschile certo non bisognosa di “ripassi” anatomici. Un discorso che nulla ha a che vedere con il facile perbenismo ed il senso del pudore. È possibile filmare e mostrare ciò che canonicamente viene considerato non mostrabile, ma utilizzare l’intera produzione di scritture sacre per evidenziare l’immagine di un femminile punito e castrato nella sua dignità di essere umano, creato per servire l’uomo, vuol dire calcare eccessivamente i toni, almeno per quanto rigurda la realtà occidentale. E poi disturbare ancora il Vecchio Testamento per conferire spessore culturale alla cruciale scena del “Tampax”, in cui si assiste all’evolversi della teoria dell’impurità di cui venivano accusate le donne (versetto 222 in cui il ciclo della fecondità veniva caratterizzato dall’espressione “è male”), significa realmente non aver fatto il benchè minimo passo avanti non verso il raggiungimento di una non desiderabile parità con gli uomini, ma verso la conoscenza di noi stesse. Una liberazione che per raggiungere il profondo dell’anima non ha necessariamente bisogno di passare per le pieghe di un corpo esibito.

di Tiziana Morganti