Avevamo abbandonato il Jerry Bruckheimer professore di storia in King Arthur e lo ritroviamo qui in un’opera di chiara ispirazione spielberghiana, tra tesori nascosti ed enigmi strizzacervelli. Un diverso ma congeniale contesto dove, tra una regia pulita ma senza picchi e un’interpretazione generale sulla media matematica, non può non risaltare la mano dorata ed inconfondibile di un produttore che sa benissimo come fare soldi con il suo lavoro. Il mistero dei Templari è una perfetta ricetta di “divertissement” per tutti, dove un sapiente cuoco si è ingegnato a mescolare ingredienti come mistero, azione, avventura e un pizzico di “love story” solo per deliziare il palato di un pubblico vasto e di tutte le età. Privo di qualsiasi pretesa di revisionismo storico, il film di John Turtletaub (i suoi precedenti sono di tale scarsa fattura che non li reperite nemmeno con la mappa del tesoro), assume una certa distanza dai nomi e fatti presi a prestito solo per tirare fuori un plot. In tal senso non lo possiamo condannare perché “il fatto non sussiste”, seppure il tentativo di tirare in ballo termini presi a casaccio come “Templari”, “Massoneria”, “Setta”, “Ordine” e mescolarli con un certo nozionismo di bassa lega, è davvero umiliante.

Quanto questi elementi siano tuttora affascinanti ne è prova tangibile il successo dei best-seller di Dan Brown (dopo Il Codice Da Vinci è stato da poco pubblicato in Italia Angeli e Demoni), e Bruckheimer, che in realtà ne ha tratto temi, atmosfere e forse anche personaggi, vuole far credere alla stampa di essere l’unica persona al mondo a non averlo ancora letto. Ne trarrà le sue conclusioni Ron Howard nel realizzare la sua interpretazione cinematografica, chiaramente con intenti diversi (speriamo) dal puro intrattenimento, accontentando quegli spettatori desiderosi di film che escano fuori dalla sala cinematografica, che li tormentino per i giorni a seguire con quesiti, spunti e riflessioni. Comunque promosso Il mistero dei Templari per aver raggiunto lo scopo prefissato: due ore di azione, velocità e un giusto grado di tensione con un Nicolas Cage fermo nel suo ‘trademark’ di inespressività e un gradito ritorno nella bella “Elena di Troia” Diane Kruger. La presenza altresì di Jon Voight e Harvey Keitel dà un sottile profumo di ufficialità all’operazione, quali autorevoli conviviali alla celebrazione di un genere che non morirà mai.

di Alessio Sperati