Dopo Buena Vista Social Club ma prescindendo da quel documentario in cui Wim Wenders dando immagine e voce alla musica di un pugno di straordinari musicisti cubani capitanati da un vegliardo dallo sguardo scintillante come Compay Segundo (classe 1907) e per i quali raccontarsi e vivere attraverso quelle note era l’unico modo possibile. Quel film che li fece conoscere al mondo era però, anche e non intenzionalmente, il film di un addio: ad un universo musicale in via di estinzione, sintetizzato dalle immagini di quel pugno di grandi vecchi che ce la mettevano tutta ma che di eredi non ne avevano poi troppi davanti. E, invece, pare che Wenders, già nel momento in cui girava quel film, già su quel set ambulante, pensasse ai figli di quei vecchi che avevano le loro storie negli occhi. I figli di Buena Vista Social Club erano, per lui, tutti quelli che si affollavano dietro i set e, tremanti, gli consegnavano nastri con le loro musiche o supplicavano audizioni.
C’erano, ne era certo Wenders in quel momento; avevano quintalate di trovate musicali da proporre; e qualcuno doveva pur dar loro un microfono. O, meglio ancora, un schermo gigante spalmato su più punti del globo. Musica Cubana, che arriva ora sugli schermi italiani e che sarà proposto anche all’interno del Festival di Ravello, è nato così: al grido di battaglia delle note giovani. E per questo Wenders ha scelto una postazione dietro le quinte, il ruolo di produttore esecutivo che affida ad un giovane, Germal Kral la guida registica. Di più: il ruolo di un padre che affida il bandolo del racconto nelle mani di un figlio che deve raccontare di altri figli. Kral, infatti, non è un giovinotto qualunque, ma un allievo che, attraverso l’amore per i film di Wenders ha imparato ad amare il cinema, che con Wenders ha studiato e che viene dall’università di Monaco ma che è nato in Argentina, che musicalmente era ancora legato alle malinconiche note del tango («Non sapevo nulla di questa musica. Io vengo da Buenos Aires, una città con un’atmosfera completamente diversa. Ho dovuto prima conoscere questa musica: all’inizio la sentivo estranea ma alla fine ne rimasi affascinato») e che con Wenders avrebbe girato qualsiasi cosa.

Ma anche con Stephan Puchner, qui coautore, ma già collaboratore di Wenders, e con un angelo custode al seguito. Un angelo, però, con carne, faccia e una storia personale che poteva fare da filo di congiunzione di tutte le storie. Il maestro Pìo Leiva (uno dei protagonisti di Buena Vista Social Club) era tutto questo. E molto di più. Il vero connettore e catalizzatore di questo film è lui, solo lui, e la memoria di Cuba e della musica cubana che porta con sé.
Il resto dovrebbe essere una storia on the road, tra un taxi e un vicolo, una piazza e una fattoria e tra un passeggero, alla ricerca dei giovani più promettenti musicisti cubani e l’altro, sognando, come fa il giovane protagonista (Barbaro Marin) tassista per caso e musicista per vocazione, un pubblico del mondo e un colpo di fortuna possibile. Che, puntualmente, arriverà. Un sorso di Provvidenza incarnato da una coppia di turisti giapponesi che, sentendo in macchina la sua musica, folgorati lo invitano a tenere con la sua band un concerto a Tokio, il vero inizio sotto l’orecchio del mondo. La chiusa fissata nel grande concerto non può non far pensare a Buena Vista Social Clube del resto Kral, da allievo adorante, si abbandona serenamente alle suggestioni wendersiane e declina molti di quei prototipi (il rimando a Lo stato delle cose è assolutamente palese) alternandoli a ben confezionati luoghi comuni di cinema musicale e non solo. Il viaggio attraverso la musica cubana, dal son al rock, si consuma così senza troppe emozioni, una cascata di note certo, un viaggio appena nostalgico anche, un salto verso il futuro forse, ma ciò che conta, che avrebbe potuto fare la differenza, ciò che avrebbe potuto rendere questo documentario qualcosa di diverso e di più dai tanti documentari musicali in circolazione nell’universo mondo (e magari non sponsorizzati da nomi del calibro di Wenders) non c’è. Non c’è la commozione che legava tutte le storie individuali del documentario di Wenders; non c’è il valore delle memorie individuali che diventavano memoria collettiva di un paese; non c’è la musica irresistibile di Ry Cooder e non c’è, alla fine, troppo da discutere su quello di cui parliamo quando parliamo di libertà. Resta il tripudio di una musica trascinante ma in una confezione un po’ laccata, colorati stralci di cartoline illustrate. E musicate.

di Silvia Di Paola