Il 29 maggio 1905 a Vienna venne inaugurato il teatro moderno. Di fronte ad un pubblico filtrato e selezionato dalla polizia come dagli organizzatori il sipario si aprì sulla vicenda di “Lulù”, archetipo violento della femminilità nata dalla fantasia e dagli istinti di Frank Wedekind (Lo spirito della terra, Danza macabra) che, con le sue opere, ebbe la possibilità di irrompere nella tradizione del teatro stesso senza alcuna grazia, ma con il coraggio di mostrare ciò che fino a quel momento era stato occultato. In lui esplose violentemente tutta la carica sessuale dell’epoca nascosta dietro la facciata del “liberty”, offrendo alla figura femminile la possibilità di farsi portavoce di tutti i suoi fantasmi convulsi ed invadenti. Tutto questo per comprendere meglio la fonte e l’ispirazione dal quale nacque The Fine Art of Love – Mine Ha-ha, ovvero L’educazione fisica delle fanciulle (scritto da Wedekind durante la sua prigionia nella fortezza di Kaingstein colpevole di lesa maestà a causa delle sue poesie antimonarchiche), e per immaginare quanto fascino debba aver esercitato l’immagine di un vasto parco disseminato di case basse ricoperto di rampicanti e di centinaia di fanciulle educate ad un’elasticità ed una acutezza di sensazioni avvolte in una nube erotica sulla fantasia di Alberto Lattuada, sempre particolarmente attratto dai temi adolscenziali. Ma il film, la trasposizione cinematografica del romanzo come lui l’aveva immaginata e scritta in una prima ed originale sceneggiatura non potremo mai ammirarla. Infatti l’opera presentata fuori concorso all’ultima edizione del Festival di Venezia della prima visione non mantiene altro che una generica cronologia dei fatti, mentre nel particolare si caratterizza con degli elementi del tutto personali. Ciò vuol dire che, oggi più che mai, L’educazione fisica delle fanciulle è il film sognato da Lattuada ma realizzato dal documentarista John Irvin.

Nonostante sia stato mantenuto intatto il tema della perdita dell’innocenza e quello della condizione della donna ancora vittima delle consuetudini e della società, Irving, accanto ad un secondo filone narrativo fatto di violenze fisiche ed emotive già pensato nella prima stesura, aggiunge un elemento personale che nasce probabilmente dalle sue esperienze giovanili (ha trascorso la sua infanzia in un severo collegio inglese) come da alcuni riferimenti cinematografici ben precisi. Tra scene dall’ indubbia bellezza iconografica, un’ atmosfera che comunque rimane fredda e piuttosto asettica, una suspence che non riesce a mantenersi elevatamente intatta, il regista intreccia vicende eccessive volte ad esaltare la perfidia e la malvagità di adulti che, invece di assumere il proprio ruolo di educatori, imperversano su creature innocenti. Il risultato è un thriller con delle decise tinte horror che non rinuncia, però, ad atmosfere erotiche alla De Sade. Una certa incoerenza che sfocia nella confusione stilistica non permettendo all’insieme dell’opera di approfondire pienamente alcuni elementi trattati con maggior attenzione da film quali Magdalene ed il certo non perfettissimo La mala educacion. Nonostante l’impegno di un cast scelto indubbiamente con attenzione (notevoli sono le prove della giovane Hannah Taylor-Gordon e di Jaqueline Bisset), le scenografie attente alla ricostruzione, una fotografia di alto livello artistico, tutto appare fin troppo perfetto. Il pathos di una vicenda incentrata sul dissolversi di una innocenza che non è tanto fisica quanto interiore, il destruttare la favola stessa (ci troviamo di fronte ad un principe che non si innamora ma violenta la sua principessa) perdono il passo di fronte alla ricerca di un manierismo estetico e ad una necessità di strafare pur di trovare una nuova e non sempre efficace chiave di lettura. Certo non possiamo imputare ad Irvin scarso coraggio, eppure il suo distaccato stile da documentarista fa rimpiangere l’oramai perduta visione di Lattuada.

di Tiziana Morganti