Parlare di adozioni non è certo un compito semplice. Alla base della narrazione ci sono una serie di sfumature emotive che si correrebbe il rischio di enfatizzare o di trascurare, raggiungere poi una giusta ed armoniosa proporzione è talmente arduo che il cinema sembra essersi accorto chiaramente del pericolo e delle difficoltà. Effettivamente sono rare le storie portate sul grande schermo pronte a concentrarsi su queste problematiche, riuscendo ad ottenere tra l’altro un largo consenso da parte della critica e del pubblico. Dunque, anche solo per questi pochi ma fondamentali motivi appena elencati, La piccola Lola va osservata con il rispetto che si deve quantomeno al coraggio. Bernard Tavernier costruisce una vicenda all’interno della quale il percorso personale di una giovane coppia intenzionata ad adottare una bambina di provenienza cambogiana ha il compito di mostrare le insofferenze e le ingiustizie che un’attesa può creare. La strada burocratica, spesso caratterizzata da generose elargizioni a favore dell’autorità di turno cammina parallelamente alle insofferenze ed alle frustrazioni interiori che il regista ha filmato attraverso un vero calvario lungo più di due ore.

Sicuramente realizzato con maestria e gusto dell’immagine, il film può peccare di enfasi, di esagerazione nel mostrare e nel raccontare. Caratteristiche che prolungate eccessivamente rischiano di rendere l’insieme, per quanto di buona qualità, stucchevole ed insostenibile. Ed ecco che torniamo al problema iniziale della proporzione e dell’armonia. Ecco ciò sembra mancare a questo film. L’indugiare, l’esagerare, l’accentuare la disperazione ed il percorso tutto in salita di una adozione non facilita sempre l’immedesimazione, rischiando di immergere l’intera vicenda in una valle di lacrime difficile da gestire e da ricondurre ad esperienze reali. Senza troppo tornare indietro nel tempo John Sayles presentò alla sessantesima edizione del Festival di Venezia un film con la stessa ingenua difficoltà narrativa di La piccola Lola, ma in quel caso specifico la sua Casa de los babys riuscì ad inquadrare e circoscrivere il panorama emotivo, salvaguardandolo da qualsiasi eccesso rappresentativo e rendendolo particolarmente vicino alle umane difficoltà. Peccato che Tavernier non sia riuscito nel medesimo intento, lasciandosi conquistare da un gusto per l’enfasi che ha finito per limitare invece che esaltare un’opera altrimenti apprezzabile.

di Tiziana Morganti