Partendo dal bestseller del 1999 di Andre Dubus III, House of Sand and Fog, l’esordiente regista ucraino Vadim Perelman costruisce un film di notevole potenza figurativa, incentrato su una storia e su personaggi non comuni, tragici, carichi di significati simbolici e politici. A lottare per il possesso della casa del titolo, da un lato vi è una giovane ragazza americana, ex alcolista e sentimentalmente assai fragile che, con il suo percorso di redenzione e difficile rinascita, rappresenta in pieno tutta la debolezza e la sbagliata impostazione dell’intera nazione statunitense; dall’altra vi è un ex-colonnello dell’aeronautica iraniana il quale, per cercare di mantenere il livello di benessere della sua famiglia, non esita a svolgere i lavori più umili e sfiancanti, divenendo così il simbolo di tutti gli emigrati illusi di poter inseguire il Sogno Americano all’interno di uno Stato che il più delle volte li penalizza e li distrugge. Il film, pur non allontanandosi da un’impostazione prettamente melodrammatica, riesce a mantenere ben saldo l’obiettivo che si prefigge, ovvero quello di fornire un’accurata descrizione della complicata situazione che vivono gli emarginati all’interno della società americana (e occidentale in genere); e lo fa grazie al contributo di un cast d’attori al meglio delle sue possibilità, in cui accanto ai nomi noti di Ben Kingsley e Jennifer Connelly, spiccano quelli di Shohreh Aghdashloo (indimenticabile la sua figura di moglie delusa, fragile fuori ma di grande forza interiore) e Ron Eldard. Senza dubbio i personaggi meglio delineati, i più coinvolgenti e drammatici sono quelli dei due protagonisti: Jennifer Connelly, dopo l’exploit di A Beautiful Mind, film per cui vinse l’Oscar come miglior non protagonista femminile, conferma le sue innumerevoli doti d’attrice, dimostrando di poter sostenere sulle proprie spalle tutto il peso di un personaggio complesso, sfaccettato, profondamente doloroso. Non le è da meno il grandissimo Ben Kingsley, che qui offre forse una delle sue migliori interpretazioni di sempre, in un ruolo che facilmente poteva scadere nel banale o nel melenso. Un’ultima annotazione per la straordinaria fotografia di Roger Deakins, spesso collaboratore dei fratelli Coen, il quale avvolge l’intero film tra le nebbie e i fumi di un paesaggio spettrale, in cui ogni sfumatura del blu e del nero viene esplorata e contrapposta ai caldi colori degli ambienti che ben rappresentano tutto il calore e l’ospitalità che solo la propria abitazione riesce a trasmettere.

di Simone Carletti