L’eterna lotta tra il debole e il forte, la voglia latente e poi sempre più impellente di riscatto in mano a Matteo Garrone diventano pura poesia. Il cinquantenne regista romano col suo Dogman scava ancora una volta nell’animo umano con mano lieve ma decisa, rendendo perfetti gli attori in ogni ruolo, usando la macchina da presa come un bisturi che incide, sutura, ma non rimargina mai fino in fondo le ferite inferte dalla vita.
Una vita grama, intrisa di soprusi, quella del mite e sensibile Marcello (Marcello Fonte), tolettatore di cani in una desolata e fatiscente periferia, vessato dall’ex pugile Simoncino (Edoardo Pesce), violento cocainomane terrore del quartiere, che lui considera un amico, da seguire, proteggere, forse persino imitare, che lo sfrutta facendolo finire persino in galera per coprire le sue malefatte. Marcello ama la gente, adora la figlia, i cani, non farebbe male a una mosca, ma dopo l’ennesima sopraffazione sfodera tutta la sua astuzia per riaffermare la propria dignità.

Come per i suoi L’imbalsamatore e Gomorra Garrone ha scelto come teatro per le riprese il Villaggio Coppola di Castel Volturno, un luogo di frontiera, ottima metafora della più degradata società contemporanea. Si è ispirato al fatto di cronaca che lo colpì profondamente nel 1988 sull’efferato delitto del Canaro della Magliana, dal quale però si è volutamente allontanato, eliminando dal film la parte più sanguinaria di quella vicenda per dare invece spazio alla violenza psicologica, mettendo in primo piano l’aspetto più “umano” dei cani, muti testimoni della bestialità degli uomini. La sceneggiatura era pronta prima di girare Gomorra, racconta, ma lui l’ha rimanipolata più e più volte, trovando anche il cast perfetto e, diventato nel frattempo padre, la nota giusta per sottolineare l’amore del protagonista per la giovane figlia.

Strepitosa l’interpretazione di Marcello Fonte su cui sono cuciti a meraviglia i panni del mite canaro, la cui semplicità sentimentale non lo abbandona mai, impedendogli di trasformarsi in un mostro, anche quando riuscirà a rivendicare la sua dignità calpestata. La dolcezza dell’attore ha fatto capire al regista come affrontare una materia così cupa rendendola leggera e coinvolgente anche nei passaggi più dolorosi, trascinando lo spettatore negli anfratti più bui dell’esistenza del protagonista che, nel tentativo di riscattarsi dalle umiliazioni, si illude di aver liberato non solo se stesso ma il mondo intero, che invece resta quasi indifferente.