Il Gatto con gli stivali e il Principe del deserto sono in sala in questi giorni

Da Gatto con gli stivali dall’accento spagnolo per i più piccini a sultano dell’Arabia dei primi Novecento per chi ama i feuilleton epico-sentimentali. L’attore andaluso Antonio Banderas arriva in varie vesti sui nostri schermi natalizi. È la voce italiana del protagonista del delizioso cartone della Dreamworks Il Gatto con gli stivali (dal 16 dicembre in 400 sale con la Universal) e l’ambiguo re arabo Nesib nello spettacolare Il principe del deserto di Jean Jacques Annaud, (dal 23 dicembre in 300 sale con la Eagle Pictures), un emiro  ammaliato dalla ricchezza e dal potere che gli verrà dal petrolio appena scoperto nel deserto alle porte del suo regno.

«Gatto è un macho fuori dai cliché – ha detto l’attore presentando la divertente e ironica pellicola (non solo per bambini) a Roma -, simbolo di quella diversità culturale spanish importante da sostenere in un paese multietnico come gli Usa. È il film spanish a più alto budget mai fatto finora. È cresciuto in un orfanotrofio dove è stato vittima di bullismo. Entra come assassino nel film Shrek ma lì trova una famiglia. È un film divertente, che riflette sentimenti come l’amicizia, la lealtà, la capacità di perdonare», sottolinea Banderas.

«Adoro quel gatto, ma è imbarazzante essere paragonato a lui perché ha valori che io non ho, è un misto tra Zorro e Robin Hood, io non sono così coraggioso. Gli ho dato un timbro di voce molto potente che contrasta col suo corpo di gattino!». L’attore ha letto il copione quando i personaggi erano appena accennati. «Con il nostro contributo il copione ha preso forma piano piano. Il lavoro di doppiaggio è il più difficile – spiega – ma io ho aggiunto battute, sospiri e cambiato parole e aspetti del carattere del personaggio, sia nella versione spagnola, dove parlo con la ‘lisca’ tipica dell’accento di Malaga, che in quella italiana».

Doppiato invece è stato lui, nella versione italiana del kolossal in costume Il Principe del deserto che arriverà nelle sale alla vigilia di Natale. Basato sul romanzo Paese delle ombre corte dello svizzero Hans Ruesch, prodotto da Tarak Ben Ammar, il film porta sullo schermo, in chiave positiva, aspetti del mondo arabo e dell’islam raramente affrontati dal cinema dopo l’epico Lawrence d’Arabia di mezzo secolo fa.

Come allora per il giovane protagonista, il principe Auda, si è scelto un attore “locale”, il franco-algerino Tahar Rahim, distintosi nel film di Audiard Il profeta. Un principe intrappolato tra due padri e i loro opposti punti di vista sul mondo islamico e i suoi valori, il valore del denaro e dell’amore. Cinque mesi di riprese tra Tunisia e Qatar per ricreare l’atmosfera da Mille e una notte della Penisola Arabica dell’inizio del ventesimo secolo. Annaud ha evitato al massimo gli effetti speciali, facendo creare 700 costumi, 700 selle, 400 armi e 250 spade, tre aerei e otto macchine blindate dell’epoca. In campo oltre 20 mila comparse, 10 mila cammelli e oltre 2 mila cavalli.

Banderas, proveniente dalla regione dell’Andalusia dalla forte influenza araba, è il sultano Nesib, emiro di Hobeika, che impone le sue regole sulla desertica ‘striscia gialla’ allo sconfitto vicino e rivale sultano di Salmaah (Mark Strong). Presi in ostaggio i suoi due figli e scoperto il petrolio in quella fascia proibita, non esiterà a far trivellare dagli avidi texani i primi pozzi per arricchirsi. La guerra che si scatenerà tra le numerose tribù locali sarà estremamente sanguinaria.

«Ho sempre avuto nella mia storia e nel mio background andaluso una certa affinità con il mondo arabo e musulmano – racconta Banderas -. Dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre c’è stata una divisione bipolare del mondo e certi aspetti della cultura araba non sono stati più rappresentati. È importante che questo film sia romantico, di intrattenimento, ma che costituisca anche un’opportunità per riflettere su questa cultura che considero anche un po’ mia».

Per il regista Annaud il passato è eterno, le favole del passato vivono anche nel futuro, in quel certo cinema che lui ama e che fa sempre sognare. Del Medioriente dice: «È una regione con molte divisioni tra le tante tribù e questo è il problema principale. Soprattutto per la Libia, la caduta di un regime non basta a dirimere il dibattito tra modernità e tradizione». Ha dato al film uno sguardo mediorientale. «Ero stanco di leggere sceneggiature scritte dal punto di vista degli europei. Ci sono ancora tante storie belle da raccontare senza le interferenze della cultura occidentale».