Prendete un classico di successo degli anni cinquanta come La signora omicidi(1955) diretto da Alexander Mackendrick, sottoponetelo alle cure di una folle creatività, e quello che otterrete sarà Ladykillers, la nuova creatura cinematografica di Joel ed Ethan Coen così fortemente personale e caratteristica nello svolgimento della sua rappresentazione da collocarsi al di sopra della semplice classificazione di remake. Certo gli elementi essenziali della narrazione sono i medesimi, un improvvisato gruppo di criminali, un piccolo colpo da portare a termine ed una ingenua anziana signora come involontario avversario, ma estrapolata la spina dorsale, tutto il resto viene cancellato per lasciare libertà d’espressione ed espansione ad un illusorio ed eccentrico mondo. Un universo caratterizzato ancora una volta dall’irrinunciabile humor nero, da un gergo che si orienta con perfetta moderazione tra il dialogo d’altri tempi ed un torpiloquio scatenato, fino a raggiungere quel limite di non senso al’interno del quale i personaggi sembrano aggirarsi con una naturalezza capace di celare la maniacale pignoleria degli autori. Dunque un percorso che più che evolutivo appare fortemente rivoluzionario, tanto da trasformare una fumosa e misteriosa Londra in bianco e nero in un Mississippi color seppia (che tanto ricorda le atmosfere di Fratello dove sei?) tutto gospel e vecchiette dal discutibile gusto per i centrini, e giocare con uno spazio-tempo non definibile attraverso una continua contaminazione musicale e linguistica. Rap e gospel, insulti e forbite citazioni letterarie, signore di colore fedeli della Chiesa Battista ed un fulvo gatto che, inaspettatamente, si pone come risolutore definitivo dell’intera vicenda mettendo ordine tra gli ultimi rifiuti dell’umana natura. Ed ancora ponti notturni sovrastati da inquietanti gargoyles immersi nella nebbia, evocazione letteraria del più macabro Poe, ed una misteriosa isola dei rifiuti che, in uno shot iniziale, strizza l’occhio alla più classica lezione hitchockiana sulla suspense, ponendo lo spettatore in una condizione di anticipazione e privilegio rispetto ai protagonisti.
Più che mai i Coen, in questa loro prima regia a quattro mani, sembrano essersi divertiti a beffare, ancora una volta, il cinema di genere. Osservarlo, carpirne la scintilla creatrice per poi riscriverlo tenendo in considerazione dei moduli e delle regole del tutto personali. Certo non esenti dalle critiche di chi li considera dei cineasti fin troppo manieristi e tecnici, riescono comunque attraverso il loro senso della narrazione a creare una storia all’interno della quale l’inverosimile si trasforma quanto meno in probabile. Ma l’essenza dell’intero film, la sua evidente comicità e la meno visibile analisi sulla caducità umana, trova piena espressione nell’imperturbabilità, nella viscida e sottile meschinità indossata da colui che ad Hollywood oramai viene chiamato faccia di gomma. Tom Hanks stupisce nel ruolo del Prof. Dorr, che fu di Alec Guinness. Sorprende ed entusiasma per la capacità d’adattamento non ad uno stile consono alle sue corde, quello della commedia, quanto al personale tocco dei Coen. Realizzare Insonnia d’amore o C’è posta per te non equivale esattamente all’impegno richiesto per Ladykillers. I due fratelli “terribili” del Minnesota non si accontentano di fotografare l’ennesima messa in scena di un amore che, per quanto brillante, fa comunque rima con cuore (Prima ti sposo, poi ti rovino ne è un chiaro esempio) e non nutrono alcun interesse per la commedia e la comicità, se non arricchite da quella irritante e stuzzicante cattiveria capace di mettere in luce l’umana natura attraverso l’esaltazione dei suoi atteggiamenti meno nobili ed alla fine più riconoscibili. Ed Hanks, totalmente privo di qualsiasi riferimento reale, costretto ad utilizzare i segreti del mestiere del teatrante, si trasforma in perfetta creatura “coeniana” mettendosi in gioco e spingendosi fino al limite del parossistico pur di trasformare lo spettrale criminale inglese interpretato da Guinness in un pacioso, forbito e raffinato ciarlatano dall’esagerata dentatura e dalla risucchiante risata, vestito con un abito color panna a metà tra Edgar Allan Poe e Mark Twain.
La rappresentazione di un personaggio chiaramente fantastico ed inesistente calato in un blocco temporale primo ‘900 ancor più paradossale se rapportato all’attualità di un intero mondo di spalle e gregari fumettistici (Irma P. Hall, Marlon Wayans, J.K. Simmons, Tzi Ma, Ryan Hurst), impegnati a ruotare attorno a lui attraverso una perfetta sincronia di tempi e pause comiche. Un universo organizato e fotografato con assoluta precisione ma che ha attirato su di sé critiche e delusioni. Presentato in concorso alla 57esima edizione del Festival di Cannes Ladykillers è stato frettolosamente archiviato come un film leggero e semplice, capace di rallegrare lo spettatore in tempi fin troppo pesanti ma, comunque, destinato ad essere dimenticato entro un’ora. Un’avventura cinematografica a detta di alcuni, talmente priva di senso dell’humor da strappare a malapena poche e scarsamente entusiaste risate. A questo punto, presupposto che il senso dell’umorismo è dote personale e percezione soggettiva, c’è molto da eccepire su questa conclamata vuotezza. Perchè i Coen sono capaci di trasformare una storia, di farla lievitare dotandola di un doppio fondo per poi arricchirla di dubbi ed interrogativi di chiara estrazione filosofica. Dove andrà a finire il mondo? Cos’è bene e cos’è male? Domande nascoste tra le pieghe del film, tra i chiaroscuri delle immagini, nella modulazione dei dialoghi. Dubbi irrisolti che non balzano con evidenza ma che si lasciano rintracciare nel nascondiglio del dettaglio da coloro che amano scoprire quel che c’è ma che ha prima vista non si vede. Ed il confronto con il passato? Con l’originale che vide l’esaltazione dei talenti di Sellers e Guinness? Un finto problema da lasciare a chi si nutre di elucubrazioni cinematografiche. Un raffronto sicuramente inopportuno per due autori abituati a non parlare altra lingua che non sia la propria.
di Tiziana Morganti