Quando il vento sbatte le imposte e fischia minaccioso Matteo cerca, quasi invoca, un silenzio che lo rassicuri. Lui cui basta il pianto di un bambino perché un’ombra gli imbratti il viso. Lui che in questo film, cui ha dato il titolo, Un silenzio particolareappunto, senza volerlo e senza saperlo, è il protagonista ma solo tra altri protagonisti, il punto di partenza e mai di arrivo di un’utopia. Non di un sogno, beninteso, ma di una vera e propria utopia che è altra storia, altro costruire, altro raccordarsi. L’utopia di un mondo in cui le diversità si incontrano, in cui la normalità incontra la malattia, oltre ogni confine, ogni ghetto, mentale prima ancora che fisico («Perché – come dice Stefano Rulli – anche senza i manicomi far vivere in case famiglia o in altre strutture i malati solo con i malati e mai con i normali significa ricreare qualcosa che ai manicomi somiglia»). Per Matteo la diversità è il suo disagio mentale, per noi che lo guardiamo sullo schermo è il suo sguardo vuoto in cui annega già da bambino, fissato nelle immagini sgranate del superotto di famiglia. Eppure è stato lui ad entrare in campo. Lui, distaccato dagli altri e dal mondo, a spingersi sotto la macchina digitale che riprendeva qualcos’altro: immagini e persone dell’agriturismo della “Città del Sole” fondato da Stefano Rulli e Clara Sereni, papà e mamma di Matteo.

È successo in modo inatteso ma è successo. E lui ha accettato di guardarsi in qualche modo, di riconoscersi: è entrato in campo ed è diventato protagonista. Questo bellissimo, e non meno straziante, film-documentario (presentato alla scorsa Mostra veneziana e ora in arrivo sui nostri schermi) è la sua storia. Meglio: un’idea della sua storia. E anche un’idea dell’utopia cui chi gli sta intorno non vuol rinunciare: un matrimonio qualsiasi in cui i malati e i non malati si mischiano e, semplicemente, mangiano, ballano, cantano insieme e nulla più, ne è un frammento. Come dice la Sereni mentre sta in mezzo a quella baldoria: «Chi sono? Sono solo persone per cui vale la pena di vivere, persone che ti permettono non di credere non nei sogni, in cui io credo poco, ma nelle utopie di cui non posso fare a meno». D’altra parte il film partecipa di questa stessa utopia, ne è un piccolo pezzo: perché, come dice Rulli, sceneggiatore da una vita, regista di nuovo dopo vent’anni e uomo di cinema da sempre, «attraverso la realizzazione di questo film, reso possibile dal digitale, è come se Matteo avesse accettato di guardarsi per la prima volta, e per la prima volta ha potuto avvicinarsi a sua madre controllando la propria aggressività, per la prima volta ha tenuto in braccio la bambina che col suo pianto lo aveva inquietato e, lasciandoci di stucco, si è messo a cantargli una ninna nanna».

Ma non è neppure tutto perché Rulli con questo film ha fatto qualcosa di più e di diverso rispetto a ciò che aveva realizzato cosceneggiando Le chiavi di casa di Gianni Amelio. Come lui dice: «Lì, sia pure affrontando di nuovo l’handicap, ho lavorato come uno sceneggiatore, sintetizzando in parole delle esperienze universali da raccontare, qui ho lavorato ascoltando, al di fuori di ogni schema, lasciando la parola agli altri, anche se poi ero io, alla fine, a ricostruire un filo conduttore, dunque si è trattato di un altro linguaggio, di un altro genere di film». E, ancora, qualcosa di diverso lo ha fatto tornando nei luoghi da cui era partito quasi trent’anni fa, quando aveva girato con Bellocchio, Agosti e Petraglia l’indimenticato Matti da slegare che tutto ruotava intorno a un pugno di disabili psichici che la legge Basaglia aveva di colpo reso liberi, almeno dalla prigione del manicomio, ma tornandoci con una storia tutta osservata e narrata dal di dentro, con fermezza e commozione, tenerezza e implacabilità. Ma, ciò che più conta, questo film di dolore e di disperata speranza, questa storia di vite che diventano attese ed esercizi di pazienza, ha anche dato un vero, corposo, concreto contributo al cinema ma non solo: ha regalato uno sguardo. Uno sguardo diverso su qualcosa o qualcuno, sulla diversità e sulla malattia mentale, sul disagio di chi la vive e di chi la subisce, sulla paura di chi fugge di fronte ad essa e di chi resta, su gesti di vita quotidiana che potrebbero appartenere a chiunque. Insomma ha fatto ciò che il cinema sempre dovrebbe fare.

di Silvia Di Paola