Il Joffrey Ballet di Chicago mette in scena l’armoniosa eleganza di corpi piegati alla volontà della danza di fronte allo sguardo rispettoso di Robert Altman che fotografa e cattura il movimento, insinuandosi tra la sofferenza ed il sacrificio che si cela dietro il raggiungimento della perfezione. Dopo quarantasei anni di attività e più di trenta film realizzati, il regista americano sembra non sentirsi mai artisticamente appagato e, superando ben poche esitazioni, raccoglie la sfida di una narrazione corale che come principale filo conduttore non ha altro che la forza trascinante ed emozionale dell’espressione corporea. The Companyè l’esaltazione della melodia. È la sensuale e tenera intimità espressa scivolando sulle note di My Funny Valentine avvolti da un imperturbabile incantesimo, la leggerezza di un candido volteggio, l’asprezza della competizione e l’amarezza della sconfitta. Altman si cela e si fonde con questo mondo sconosciuto e complesso per coreografare la sublimazione dell’estetica e catturare l’attimo in cui il movimento lentamente si trasforma in danza. «Ho capito oggi che posso avvicinarmi ad un film in maniera diversa rispetto al passato. Ogni giorno sul set ho imparato qualcosa di nuovo. Più mi spingevo avanti e più mi rendevo conto che potevo andare oltre e scavare fino ad arrivare alla verità. Non so di cosa parlerà il mio prossimo film ma sono certo che di qualunque cosa si tratti non lo affronterò più come facevo prima di girare The Company». Parole di un artista che ha scoperto di poter utilizzare il cinema come contemplazione e non esclusivamente come narrazione. Sensazioni di un amante che si aggira tra le quinte spiando e carpendo, attraverso una ripresa fluida e morbida in alta definizione, le espressioni salienti dell’oggetto amato. Pur non rinunciando a proiettare una visione ed un obbiettivo del tutto soggettivo, la sua ben nota personalità autoriale sembra porsi in secondo piano di fronte all’esigenza espressiva di uno spettacolo troppo complesso ed emozionalmente irruento per accettare una posizione non primaria. Ed è forse per questa sua vitale indipendenza che non è possibile catalogare The Company all’interno di nessun genere specifico. Lontano dallo stile più televisivo e commerciale delle ultime pellicole dello stesso Altman (Gosford Park del 2001 o Il Dr.T. e le donne del 2000), privo del vero distacco analitico documentaristico e di una determinata ossatura narrativa cinematografica, non può che essere considerato un’opera destinata a conquistare il cosìddetto pubblico di nicchia. Un momento artistico al quale, al di là di qualsiasi valutazione tecnica e di coinvolgimento emotivo, è impossibile non attribuire degli evidenti limiti che toccano non tanto la sfera della distribuzione quanto quella della visibilità e della comprensione. Naturale, dunque, interrogarsi con una punta di amarezza su quanti accetteranno di sostenere 112 minuti privi di uno svolgimento articolato, sacrificando gli schemi classici della narrazione hollywoodiana in nome della pura esaltazione artistica.

di Tiziana Morganti